domenica 26 settembre 2010

O tempora o mores #1

Signore, vostra moglie, col pretesto di lavorare in un lupanare, vende merce di contrabbando.


Samuel Johnson, cit. in J.L. Borges, L'arte dell'insulto

sabato 25 settembre 2010

Parole sante #4

Only someone who's morally superior can possibly and honestly deserve to rule my world.


The Kings of Convenience, Rule my world

venerdì 24 settembre 2010

Esclusi i presenti

Due pezzi dalla cronaca recente, apparentemente distanti per tema e implicazioni, danno invece, opportunamente accostati, tutto il senso dello sfacelo in cui siamo precipitati. Su Repubblica, Carlo Petrini racconta la sua esperienza in un teatro di Seul in cui giovani universitari coreani mettono in scena con competenza e passione la Traviata verdiana, in un clima di eccitazione palpabile. Non è un caso: in Corea del Sud è in atto un vero e proprio boom culturale che fa di questo paese uno dei laboratori più interessanti a livello globale (le produzioni musicali e video coreane stanno letteralmente conquistando l’Asia) e una vera e propria land of opportunity per i giovani professionisti della cultura; e in futuro avremo modo di parlarne anche in questo blog. In Corea si preparano grandi celebrazioni per il bicentenario verdiano e in effetti il morbo operistico sta contagiando l’estremo oriente, che non a caso produce da anni (con sempre maggiore efficacia e successo) un numero crescente di cantanti e musicisti classici di alto livello. Quello che colpisce, se si approfondisce l’atteggiamento sociale verso i temi della produzione e dell’espressione culturale di questi paesi, è l’etica del lavoro e del sacrificio di ragazzi spesso giovanissimi ma già fortemente motivati (anche grazie ad un contesto sociale che attribuisce alla cultura una grande importanza e investe di conseguenza), il loro senso di responsabilizzazione, il loro travolgente entusiasmo. Da noi le celebrazioni verdine avverranno probabilmente in tono minore perché notoriamente non ci sono risorse per la cultura e bisogna tagliare, tagliare, anche le eccellenze riconosciute, anche i progetti più indiscutibilmente sensati e importanti (come denunciato ormai quasi quotidianamente dai nostri migliori musicisti e uomini di cultura). E poi, che cosa può importare agli italiani di oggi di Giuseppe Verdi? Almeno una volta, quando c’era la sua faccia sulle banconote da mille lire, qualche motivo di interesse c’era. Ma ora? Abbiamo l’euro, Verdi non ci serve più. E’ nato duecento anni fa? Pace all’anima sua.

E qui arriva il confronto con la seconda notizia: abbiamo già parlato in un recente post dei costi diretti (e delle devastanti conseguenze indirette) della politica italiana, ma non sapevamo (e ce ne informa Carmelo Lopapa sempre su Repubblica) che a quei livelli di indennità già senza paragoni in tutti gli altri paesi occidentali deve aggiungersi un costo giornaliero per gli affitti degli uffici dei parlamentari pari a 150 mila euro al giorno, 8 mila euro al mese a parlamentare. Quale ufficio (per un singolo parlamentare, tra l’altro) può ragionevolmente costare 8.000 euro al mese (al netto delle spese di segreteria che valgono altri 4.000 euro al mese per parlamentare, pagate a parte)? Cosa deve avere, per potere costare tanto? Maniglie d’oro? Tappeti persiani sul pavimento? Servitori in livrea? A fronte di quale tipo di attività di interesse collettivo (e si vedano nel post precedente le considerazioni sulla produttività e sull’efficacia dell’azione legislativa dei nostri parlamentari)? Cos’altro si potrebbe fare con quelle stesse risorse sperperate in spregio totale della precarietà economica strutturale in cui vivono ormai quotidianamente milioni di italiani? Peraltro, se lo Stato avesse acquisito direttamente gli immobili che affitta per gli uffici dei parlamentari, risparmierebbe in modo consistente, ma naturalmente, in questo caso, e solo in questo caso, spendere il doppio o il triplo di quel che si potrebbe non è un problema. Le risorse, per questo, ci sono. Bene, è questo qui, lo Stato che ci dice che i soldi per la cultura (e per tante altre cose) non ci sono e che bisogna tagliare, sempre e comunque, non importa di quale progetto o attività culturale si parli. Sono quelle stesse istituzioni che per sé stesse riescono ad assorbire risorse al di là di ogni ragionevolezza, al di là di ogni criterio di mercato. Quelle istituzioni che quando parlano di tagli, di sacrifici, di contorte quanto improbabili razionalizzazioni della spesa pubblica aggiungono sempre una postilla muta ma eloquente: “esclusi i presenti”. Ed è questo inverecondo spettacolo di irresponsabilità istituzionale il perfetto rispecchiamento di quel clima di stagnazione, di mancanza assoluta di coraggio e di prospettive, che confina l'Italia in un umiliante ruolo da osservatore inebetito mentre altri rievocano con entusiasmo la sua stessa identità culturale passata, ne prendono in mano il testimone, danno ad essa nuova vita e nuovo significato. Quell'Italia inebetita, per parte sua, considera la propria cultura soltanto un peso inutile da tagliare. Ancora pochi anni e questo processo di disfacimento diverrà praticamente irreversibile. Bisogna fare qualcosa. Non si può essere complici di questo scempio, nemmeno involontariamente. Non ci può essere alcuna scusante, alcuna invocazione di buona fede. Si può soltanto decidere da che parte stare, e agire di conseguenza.

Parole sante #3

...l'esperienza incomprensibile di un luogo, l'Italia, che è mortificazione di ogni impulso.


Giorgio Vasta, Spaesamento

domenica 19 settembre 2010

Nel nostro interesse

Pensare che le persone possano essere motivate ad agire soltanto sulla base di incentivi monetari (premi e punizioni, oppure, se preferite le metafore, carota e bastone) è stupido, e se volete farvi un'idea del perché leggete questo. Ma se c'è una cosa ancora più stupida, è quella di utilizzare gli incentivi monetari senza tenere conto, per ignoranza o malafede, degli effetti più evidenti e prevedibili che essi indurranno sui comportamenti. La legislazione italiana, da questo punto di vista, è una miniera formidabile di esempi di leggi che stabiliscono schemi di incentivi che sembrano fatti apposta per produrre i comportamenti opposti a quelli che la legge stessa si prefigge di incoraggiare. Per cui non ci dovremmo stupire più di tanto se un esempio clamoroso di uso perverso degli incentivi monetari è rappresentato dalle remunerazioni dei nostri parlamentari.

Come mostra l'analisi presentata dal centro studi di Confindustria, l'indennità dei parlamentari in Italia è pari a circa cinque volte il PIL pro capite. Per farci un'idea, si può considerare che il rapporto indennità/PIL per l'Italia è il quadruplo di quello della Norvegia, il doppio di quello inglese, ed è superiore per più del 50% a quello americano - di fatto, non ha paragone con quanto accade in nessun altro paese economicamente avanzato:



Possiamo ritenere che questa situazione di assoluto privilegio dei parlamentari italiani sia una scelta deliberata che viene ripagata con una produzione legislativa di qualità comparabilmente superiore a quella di tutti gli altri paesi avanzati? Sarei proprio curioso di sapere chi sarebbe disposto a sostenerlo. Io mi limito a fornire qualche dato. 

-il 90% dei progetti di legge non supera l'iter parlamentare: per quanto non esista una relazione semplice tra il numero di leggi e l'efficacia dell'attività legislativa (anzi, un numero eccessivo di leggi finisce per limitarne le possibilità applicative), il fatto che la mortalità dei progetti di legge sia così elevata mostra una certa propensione dei nostri parlamentari a promuovere iniziative legislative velleitarie. 

- inoltre, si nota una crescente mancanza di congruenza tra le iniziative dei due rami del parlamento, che contribuisce ulteriormente alla frammentarietà e all'inefficacia dell'azione legislativa, e che è dovuta in buona parte alla stessa frammentazione interna degli orientamenti dei gruppi parlamentari. 

Quanto alle conseguenze pratiche dell'attività legislativa, consideriamo due semplici dati: 

- l'Italia è ventiseiesima nella EU27 per libertà economica (peggio di noi fa solo la Bulgaria, che peraltro è appena un posto sotto di noi) - il che vuol dire che negli ultimi anni quasi tutti i paesi ex socialisti della EU, partendo da situazioni molto, ma molto più arretrate delle nostre, sono riusciti a procedere nel processo di liberalizzazione molto più efficacemente di noi (per dare un'idea, la Romania ci sopravanza oggi di undici posizioni);

- l'Italia è novantaduesima (!!) nel ranking dell'indice di competitività globale del World Economic Forum per la qualità del contesto istituzionale (il che vuol dire, più o meno, un livello da paese del Terzo Mondo) - e in particolare è centodiciottesima (!!!) per l'efficienza del suo mercato del lavoro e centounesima (!!!) per capacità di fornire sostegno finanziario allo sviluppo di progetti imprenditoriali (un paese, nota bene, che ha gruppi bancari di dimensione europea). Altri fattori che pesano negativamente sulla qualità del nostro ambiente istituzionale secondo la valutazione del World Economic Forum sono gli alti livelli di corruzione, l'incidenza del crimine organizzato, la mancanza di indipendenza del sistema giudiziario.

Ci sarebbe allora qualche margine per intraprendere una iniziativa legislativa più efficace, o no? Il punto è che, a fronte di questa performance per così dire poco soddisfacente del nostro sistema legislativo, lo schema di incentivi legato alla remunerazione monetaria non fa che rafforzare le condizioni che producono questa inefficacia - per cui il puro costo della macchina parlamentare, per quanto rilevante e offensivo alla luce del reddito medio degli italiani, è quasi una minuzia rispetto all'incapacità di incidere legislativamente sui mali strutturali del nostro paese, che tengono lontani gli investitori stranieri e pregiudicano, come vediamo dai dati macroeconomici di questi ultimi anni, le nostre capacità di crescita - una specie di 'miracolo economico al contrario'.

Ma perché un livello di remunerazione così elevato dei parlamentari dovrebbe produrre effetti perversi? Semplice: proprio perché così elevata, la remunerazione parlamentare è di fatto molto più attraente del reddito che la stragrande maggioranza dei parlamentari potrebbe ottenere con qualsiasi attività alternativa, e peraltro è al riparo da ogni incertezza congiunturale visto che dal dopoguerra ad oggi è cresciuta ad un tasso medio del 10% annuo (e oltre tutto è cumulabile con molte altre forme di remunerazione, comprese alcune legate ad altri incarichi di natura politica): è, di fatto, una posizione di rendita. Per cui, chi ne beneficia sarà disposto a tutto pur di mantenerla, e diventerà quindi facilmente ricattabile da chi controlla la formazione delle liste elettorali. Per cui, i parlamentari che, in teoria, siedono nei loro scranni nel nostro interesse, in realtà fronteggiano una struttura di incentivi che li incoraggia a badare soprattutto al proprio interesse e a tenere in poco o nessun conto quello di coloro che dovrebbero rappresentare. Tanto per migliorare le cose, con la presente legge elettorale, come è noto, gli elettori non hanno alcuna voce in capitolo circa la riconferma dei parlamentari - e quindi, a maggior ragione, la cura del bene pubblico è di fatto fortemente disincentivata

Di fatto, dunque, noi italiani strapaghiamo i parlamentari con le nostre tasse perché si facciano i fatti propri e non tengano in alcun conto le nostre istanze. Non a caso, quando si paventa lo scioglimento anticipato delle camere, la minaccia di 'mandare tutti a casa' (e successivamente di non ricandidare i parlamentari poco accomodanti) viene pronunciata da chi ha interesse a farlo in modo pressoché esplicito e riportata con enfasi dagli organi di stampa come un fatto normale, anzi naturale: chi vorrebbe rinunciare a sedere sotto l'albero della cuccagna? Solo che questa naturalezza sarebbe quantomeno meglio controllabile riconducendo l'anomalia italiana entro i parametri internazionali. Senza contare quel che si potrebbe fare utilizzando in modo sensato piuttosto che sconsiderato gli incentivi monetari stessi. Ad esempio, ancorando in modo sostanziale (e non marginale) la remunerazione parlamentare alla performance macroeconomica del sistema paese (ai tassi di crescita e al livello del PIL pro capite, eccetera). Questo non basterebbe forse ad assicurare un'azione legislativa efficace, ma quantomeno creerebbe qualche incentivo a prendere iniziative per migliorare l'efficienza del sistema paese, piuttosto che a mettersi a disposizione di interessi costituiti che spesso e volentieri sono la causa principale dell'inefficienza stessa.

Ma naturalmente tutto questo ha poco a che fare con l'agenda politica di questi mesi, nei quali, peraltro, l'attività parlamentare è pressoché paralizzata, i parlamentari sono oggetto di una compravendita esplicita per tenere in piedi la maggioranza, e c'è quindi chi passa notti insonni a valutare da che parte stare per capitalizzare quanto meglio possibile la propria scelta in termini di benefici personali presenti e futuri, perché naturalmente l'appetito vien mangiando. Tutto nel nostro interesse, sia chiaro.

venerdì 10 settembre 2010

I manga nel museo

Qualche giorno fa mi è stato chiesto un parere sull'opportunità di continuare a tenere aperto o meno il MAO, il Museo di Arte Orientale di Torino. Al momento in città si è sviluppata una polemica tra coloro che difendono il museo e coloro che lo ritengono troppo costoso e troppo poco frequentato per potersi permettere di lasciarlo aperto in un momento così difficile per i finanziamenti alla cultura.

A mio parere, la questione viene posta in modo errato. Il problema non è se il MAO costi troppo o troppo poco in astratto, ma piuttosto se esso possa o meno giocare un ruolo importante all'interno del panorama di offerta culturale della città, e più in generale all'interno della logica complessiva del suo sviluppo a base culturale.

Se si ragiona in questi termini, è possibile comprendere che la questione è molto più complessa (e interessante) di quello che sembrerebbe rimanendo sulla superficie di una polemica sterile.

Un museo di arte orientale, per di più bello, è in questo momento una notevole opportunità di diplomazia culturale verso una delle aree più attive economicamente, socialmente e culturalmente alla scala globale: un aspetto che dovrebbe interessare una città come Torino, che lavora con interesse all'apertura di nuovi mercati per le sue aziende ad alta tecnologia.

Un museo di arte orientale rappresenta poi una opportunità importante di coinvolgimento del pubblico giovanile, oggi attento e interessato come mai in passato alle forme della produzione culturale di massa dell'estremo oriente: i manga, gli anime, ma anche i tv drama, oggi facilmente accessibili (e sottotitolati da attivissime comunità di volontari per aumentarne la diffusione) attraverso le piattaforme di contenuti online. Fumetti, cartoni animati, sceneggiati televisivi: forme di espressione culturale che, a differenza di quanto accade (fortunatamente, sempre più di rado) qui in occidente, nei contesti di origine di queste produzioni non vengono generalmente considerate come manifestazioni di una cultura 'bassa' opposta ad una cultura 'alta' - non a caso, i richiami ai temi e ai contenuti delle espressioni culturali della tradizione, contaminati in modo libero e coraggioso con la sensibilità contemporanea, sono frequenti ed espliciti in tutti questi ambiti. Il MAO, peraltro, è già molto aperto al dialogo con tutte le arti, anche nelle loro espressioni più contemporanee, come nel caso del cinema e della musica: si tratta soltanto di fare un passo oltre su una strada di fatto già tracciata.

Una realtà come Torino, l'unica forse delle nostre grandi città ad aver fatto una scommessa seria sulla costruzione di una identità urbana legata al contemporaneo, non potrebbe che beneficiare di un polo di attivazione culturale che si apre coraggiosamente anche alle nuove ibridazioni linguistiche, che sono la vera cifra di questo momento storico, e che trovano nei paesi dell'estremo oriente uno dei laboratori più fertili e sorprendenti. I manga (gli anime, i tv drama storici e non) nel museo, quindi: perché no? I manga come porta per la costruzione di uno sguardo diverso, più profondo, più interessato alla grande tradizione dell'arte orientale: perché no? I manga, un possibile genere classico del futuro: perché no?

giovedì 9 settembre 2010

Un paese del terzo mondo

Il grande economista Amartya Sen, premio Nobel per l'economia 1998, è uno dei più profondi conoscitori dei meccanismi che producono la povertà in tutte le sue forme. In particolare, Sen è l'iniziatore del cosiddetto capability approach, secondo cui le cause fondamentali della povertà non vanno cercate tanto nella mancanza di risorse in sé, quanto piuttosto nella mancanza di quelle capacità che permettono alle persone di fare le proprie scelte su questioni vitali nella piena consapevolezza delle conseguenze che tali scelte producono, soprattutto in termini di ben-essere personale e collettivo. Ad esempio, il basso livello di attenzione alle norme igieniche nei contesti più poveri (con tutte le prevedibili conseguenze in termini di diffusione delle malattie e di mortalità) si deve al fatto che una delle capacità fondamentali di cui i più poveri sono privi è proprio la comprensione del ruolo fondamentale che l'igiene ha nel determinare lo stato di salute, la durata e la qualità della vita propria e dei propri figli. Per cui, anche nel caso di un aumento del reddito, una famiglia povera potrebbe non migliorare il proprio livello di salute: ad esempio, se le continue malattie dei propri bambini dovute alla scarsa igiene vengono attribuite ad un malocchio e quindi il denaro aggiuntivo disponibile viene speso per commissionare allo sciamano rituali sempre più costosi, probabilmente le cose non miglioreranno.

Sarebbe facile (e consolatorio) pensare che i problemi di deficit di capacità riguardino soltanto i paesi a basso livello di sviluppo socio-economico. Purtroppo non è così: anche in contesti socio-economicamente avanzati si possono produrre deficit di capacità dalle conseguenze tragiche. Un esempio evidente in questo senso è il processo di progressiva e sistematica svalutazione sociale della conoscenza che si sta verificando nell'Italia di questi anni. In controtendenza non soltanto rispetto a tutti gli altri paesi più avanzati, ma anche alla maggior parte dei paesi socio-economicamente emergenti, in Italia si sta diffondendo, in modo sempre più evidente, l'idea che la conoscenza non abbia un reale valore sociale e che se ne possa tutto sommato fare a meno: un tipico atteggiamento rivelatore di un deficit di capacità particolarmente grave per un paese che, in quanto socio-economicamente avanzato, ha come unica prospettiva di futuro quella di diventare più competitivo nei processi di creazione di valore economico ad alta intensità di conoscenza.

Qualcuno potrebbe dire che questa diagnosi è esagerata, e anzi addirittura pericolosamente catastrofista. In Italia ci sono tante eccellenze che tutti ci invidiano ecc. ecc. Sarà, ma in un paese che non presenta un deficit di capacità quanto alla valorizzazione sociale della conoscenza, i dati diffusi oggi da QS, la società di consulenza specializzata che elabora ogni anno per il Times Higher Education Supplement la classifica dei migliori atenei del mondo, avrebbero dovuto suscitare una reazione ben maggiore dei soliti articoletti di taglio basso dedicati all'argomento, nel migliore dei casi, dai nostri maggiori quotidiani. In particolare, non avrebbero mai potuto essere totalmente ignorati dall'agenda politica, che come sappiamo in questi giorni è interamente dedicata ad altro. Non diversamente da quanto accadrebbe in un paese del terzo mondo, se i dati mostrassero che in quel paese la mortalità infantile è tripla rispetto a quella di altri paesi con un simile livello di sviluppo socio-economico. I politici locali scrollerebbero le spalle, direbbero che da loro è sempre stato così, e si passerebbe a qualcosa di più interessante, tipo: di che colore deve vestirsi l'esercito, quante mogli può avere il capo dello stato, cose così.

Ma cosa dicono, in ultima analisi, questi dati? E soprattutto, dicono qualcosa di diverso dai dati dell'anno prima? In sostanza no, le cose stanno come prima, cioè malissimo per le università italiane (e vedremo tra poco in che senso). Ma il fatto che la situazione delle università italiane nel contesto mondiale sia costantemente tragica non è un buona ragione per ignorare il problema, soprattutto quando c'è una riforma dell'università in dirittura d'arrivo (e probabilmente bloccata dal possibile ritorno alle urne nell'immediato futuro).

Il ranking di QS valuta le prime 500 università del mondo secondo un insieme molto ricco e articolato di parametri, che comprendono la produttività scientifica ma anche la qualità delle condizioni lavorative e di studio, l'internazionalità del corpo docente e di quello studentesco, eccetera. Nel complesso, si tratta di una valutazione che fornisce una stima affidabile della qualità di una istituzione universitaria, e infatti la pubblicazione dei risultati è molto seguita e molto seriamente considerata a livello internazionale. Ad oggi, per il 2010 è disponibile soltanto la lista delle prime 200 università - quella completa delle prime 500 sarà disponibile la prossima settimana - ma i dati appena pubblicati sono già sufficienti per operare delle valutazioni interessanti e affidabili. Ad ogni università, QS assegna un punteggio che pesa i vari criteri su cui si basa la valutazione. Fatto pari a 100 il punteggio del migliore, che quest'anno è l'università di Cambridge, che ha così messo in discussione lo storico predominio di Harvard, tutte le altre università sono valutate con un punteggio relativo, per cui l'effettiva gerarchia dei valori può essere misurata non soltanto dall'ordine in classifica, ma dalla effettiva distanza del punteggio di ciascuna università da quello della migliore. Sommando poi i punteggi delle università in classifica per nazione, si può ottenere una prima valutazione del 'potenziale' di ciascun paese in termini della qualità relativa delle proprie università di eccellenza.

Come si colloca l'Italia nel quadro internazionale? Tra le prime 200 ci sono soltanto due università italiane (Bologna e Roma La Sapienza), tutte e due in posizioni piuttosto basse di classifica. Senza fare confronti con le nazioni al vertice (USA e Regno Unito), le precedono sette università svizzere, nove canadesi, dieci olandesi (!!), otto australiane, nove giapponesi, quattro coreane, dodici tra Cina, Hong Kong e Singapore, quattro francesi, quattro svedesi, tre danesi, due irlandesi, due neozelandesi, due belghe, tre israeliane, due norvegesi, due spagnole, una austriaca, una russa, una taiwanese, una sudafricana (!!). Nel complesso, portando a 1000 la somma del potenziale complessivo della nazione più forte, gli USA naturalmente, ecco qual è il ranking dei vari paesi in termini di distanza relativa:




L'Italia è ventiquattresima. Ventiquattresima. Il che vuol dire che non soltanto non siamo nel G7 della qualità della produzione della conoscenza, ma non siamo nemmeno nel G20, in cui troviamo paesi come l'Irlanda, la Nuova Zelanda, la Danimarca, la Corea, e in cui c'è un paese come l'Olanda che siede al quarto posto assoluto. Fatto 1000 il potenziale degli USA, il nostro è 26,8. Il due e mezzo per cento. Se poi confrontiamo il nostro potenziale con quello degli altri paesi G7, è più che evidente che apparteniamo ad una categoria diversa, che non ha nulla a che fare con quella degli altri. Il paese più indietro nel gruppo oltre noi, la Francia, ha un potenziale più che triplo rispetto al nostro:


Alla luce di questi dati, se l'Italia non avesse un problema di capabilities, ci troveremmo di fronte ad una emergenza nazionale, ad una possibile mobilitazione generale. La riforma che sarebbe in via di approvazione fa ben poco per cambiare questa situazione. Nel migliore dei casi, ad esempio, introduce dei modesti incentivi monetari per chi fa buona ricerca, o dà qualche fondo in più; spiccioli, nel clima di tagli generalizzati che colpisce la formazione e la ricerca in Italia oggi. Ma tutti i nodi veri, quelli che scavano un fossato sempre più ampio tra noi e il mondo universitario globale che funziona secondo standard internazionali condivisi, restano intatti. Il processo di reclutamento dei docenti rimane ancora cervellotico, lungo e imprevedibile negli esiti (dopo mesi se non anni di concorso, se l'ateneo ha bisogno di uno specialista del campo X, può ritrovarsi uno specialista del campo Y di cui non sa bene che farsi) e improponibile per un ricercatore straniero di livello, che avrà modo di sistemarsi meglio e più rapidamente altrove. I docenti che non fanno ricerca da anni (e magari non l'hanno mai fatta) sono inamovibili e spesso impegnano una quantità di risorse tale da rendere impossibile assumere ricercatori giovani, per non parlare dei fondi che sottraggono a chi la ricerca potrebbe e vorrebbe farla, per cui l'unica speranza è aspettare che vadano in pensione (e naturalmente molti di loro fanno di tutto per andarci il più tardi possibile). La qualità della didattica e i giudizi degli studenti non hanno influenza alcuna sulla remunerazione dei docenti né sul loro status. Non è un caso allora che alcune delle nostre università che nelle classifiche parziali per aree ottengono buoni risultati, come la Bocconi nelle scienze sociali o il Politecnico di Milano nell'ingegneria, stiano di fatto approntando soluzioni che almeno in parte aggirano le insostenibili rigidezze del sistema italiano. Ma questo stato di cose, a quanto pare, non si può cambiare in modo sostanziale, perché essenzialmente per fare ciò l'università dovrebbe autoriformarsi, visto che in Italia la difesa degli interessi pregressi, giusti o sbagliati che siano, è sempre e comunque garantita (a danno di chi ha avuto la sfortuna di nascere troppo tardi rispetto agli anni d'oro in cui c'erano praterie da occupare e presidiare). E vi pare che possa autoriformarsi una università in cui, spesso e volentieri, chi ha i numeri per far pendere la bilancia da un lato o dall'altro sono proprio coloro che avrebbero molto o moltissimo da perdere da una vera trasformazione dell'università italiana? Anche altri paesi, come ad esempio la Germania, hanno avuto per anni un sistema universitario isolazionista rispetto al resto del mondo e molto rigido e controllato da interessi corporativi. Ma la Germania ha avuto il coraggio di cambiare con decisione, e ha oggi dodici università tra le prime duecento.

In un contesto del genere, è già un miracolo, direbbe qualcuno, che ci possa essere qualche università italiana tra le prime duecento, o qualche università nelle prime cento nei singoli settori, quindi rallegriamoci. Noi italiani, direbbe sempre quel qualcuno, siamo così: otteniamo tanto con poco. Quante volte ho sentito dire, sento ancora dire queste stupidaggini offensive, per chi le dice e per chi le ascolta. Ma tanto comode per chi ha interesse a mantenere le cose come sono, e per i decisori pubblici che non cercano altro che una buona battuta con cui liquidare queste seccature quando proprio devono dire qualche frase di circostanza. Quei decisori che magari neanche l'hanno fatta, l'università, e a cui comunque queste cose non interessano, perché interessa altro, perché queste cose non le capiscono, non li appassionano, non li divertono. Non possiamo nemmeno più dire che, andando avanti così, diventeremo un paese del terzo mondo. Dal punto di vista universitario, lo siamo già, un paese del terzo mondo.

lunedì 23 agosto 2010

Memento mori #1

La prova più evidente di una cultura posticcia: ricorrere continuamente alle citazioni (per lo più a sproposito).

domenica 22 agosto 2010

Sette piani

Uno dei racconti più belli di Dino Buzzati si intitola Sette piani. E' la storia di una progressione inesorabile. Un uomo, Giuseppe Corte, entra in un sanatorio specializzato nella cura di una certa malattia per una lieve insorgenza. La peculiarità è che il sanatorio ha sette piani, e che ad ogni piano i malati sono collocati in ordine di gravità, dal settimo (i meno gravi) al primo (i terminali). Quando un malato terminale è sul punto di morire, le persiane della sua stanza vengono abbassate. Il racconto è naturalmente la storia di una discesa all'inferno che procede per incidenti minimi, trasferimenti temporanei, apparenti disfunzioni amministrative. Giorno dopo giorno, Giuseppe Corte, che inizialmente entra al settimo piano con la prospettiva di restarci per un breve periodo, inesorabilmente scende un piano dopo l'altro. Eppure a detta di tutti è, di volta in volta, il paziente più sano del suo piano, quello che dovrebbe sicuramente stare molto più su e presto ci tornerà, non appena gli equivoci saranno risolti. E' così che Corte arriva finalmente alla stanza del primo piano in cui, senza preavviso, in pieno pomeriggio, la luce sparisce dietro le persiane che si abbassano.

Uno dei temi che ricorrono più spesso in questo blog è il tentativo di capire attraverso i dati cosa sta accadendo al nostro paese, qual è la sua collocazione nel quadro socio-economico globale. In fondo, i dati statistici assomigliano un po', per un paese, a quelli clinici: sono pochi i numeri che presi singolarmente hanno un significato oggettivo e inequivocabile; però considerati nel complesso spesso permettono ad un occhio esperto di farsi un'idea sullo stato di salute del paziente. Lo stesso vale per i sistemi paese. Di alcuni dati, e del loro significato sintomatico, abbiamo già parlato in precedenza. Oggi però vorrei presentare uno dei primi risultati emersi da una ricerca che sto conducendo con i miei amici e colleghi Massimo Buscema e Stefano Terzi del Semeion e Guido Ferilli dello IULM.

Nella nostra ricerca, stiamo cercando di capire come si struttura e come si modifica nel tempo lo scenario socio-economico globale componendo in un quadro unitario tutte le informazioni che è possibile raccogliere dalle statistiche e dagli indicatori di pubblico dominio. Si tratta di una analisi piuttosto sofisticata dal punto di vista statistico, che viene condotta per mezzo di reti neurali artificiali, molte delle quali sviluppate in questi ultimi anni proprio dal Semeion. Il risultato di cui mi interessa parlare oggi riguarda una classificazione dei paesi per i quali le informazioni sono disponibili con riferimento a cinque indicatori di largo uso, la cui pubblicazione annuale è generalmente seguita con grande attenzione dalla stampa: l'indice di competitività del World Economic Forum, l'indice di sviluppo umano dell'UNCTAD, l'indice di libertà economica della Heritage Foundation, l'indice di libertà di stampa di Reporters sans Frontières, e l'indice di percezione della corruzione di Transparency International. Nel loro complesso, questi cinque indicatori delineano i principali aspetti di una società aperta popperiana, e quindi possono essere considerati un buon indicatore composito della collocazione di un paese all'interno del quadro globale dei flussi di beni, servizi ed idee, dello stato di salute e dell'efficienza del suo sistema economico, del suo sistema formativo e della sua pubblica amministrazione, della democraticità e della trasparenza della sua vita pubblica, e così via.

Quello che normalmente si fa, quando ciascuno di questi indicatori viene pubblicato, è commentare se un determinato paese è salito o sceso in classifica, ma è più difficile capire come i movimenti dei singoli valori modificano il posizionamento complessivo del paese nell'arena globale. La nostra ricerca si propone di rispondere espressamente a questa domanda. La mappa che trovate qui sotto descrive i quattro principali raggruppamenti di paesi che si producono mettendoli a confronto sui dati relativi ai cinque indicatori per l'anno 2007.



I quattro gruppi possono essere letti come segue: quello dei paesi socio-economicamente più avanzati, più vicini cioè al modello della società aperta (in viola); quello dei paesi con buoni valori di sviluppo socio-economico e di democraticità ma su un ordine di grandezza inferiore a quello del gruppo di punta (in grigio scuro); quello dei paesi con livelli discreti di sviluppo socio-economico ma con bassi livelli di democraticità e di trasparenza (in giallo senape), e quello dei paesi con bassi livelli di sviluppo socio-economico e di democraticità e trasparenza (in verde).

Il gruppo di punta comprende il Nord America, la maggior parte dell'Europa Occidentale, il Cile, l'Oceania, il Giappone e la Corea. L'Italia non c'è: è nel secondo gruppo, assieme alla Grecia, al blocco dei paesi comunitari dell'est, al blocco sudafricano, al Brasile e al Perù. Rispetto al gruppo di testa, l'Italia appare significativamente indietro non soltanto sul piano della competitività e della libertà economica, ma anche della libertà di stampa, e ancora più sensibilmente su quello della percezione della corruzione. Solo lo sviluppo umano raggiunge livelli coerenti con quelli del gruppo di eccellenza.

Agli inizi del decennio, il nostro paese, in una classificazione analoga, sarebbe stato ancora nel gruppo di testa, e tra i paesi attualmente compresi nel secondo gruppo è l'unico che vi è entrato discendendo dal primo. Siamo scesi di un piano, nel sanatorio. Ed esattamente come nel racconto di Buzzati, troviamo tanti che commentando questi dati direbbero: ma sì, ma andiamo, ma è evidente che nel secondo gruppo noi siamo su un altro livello rispetto agli altri, siamo i più sani di tutti... Quel declassamento di un piano è una cosa temporanea, una bizzarria statistica, è evidente che noi siamo nel gruppo dei migliori, che l'ultimo piano ci spetta di diritto, e lì torneremo presto. E io sarei d'accordo con questi commentatori, se nel frattempo ci fosse qualcuno che si preoccupa delle cure, che prende sul serio queste analisi cliniche e si chiede qual è la ragione, quale potrebbe essere la cura migliore, cosa si potrebbe fare. Ma visto che invece tutto quello che si sente ripetere è un chiacchiericcio senza senso condito di inviti al buonumore e all'ottimismo, questo racconto di Buzzati proprio non mi va via dalla testa. Nel frattempo, anno dopo anno, tutti i nostri indici continuano a scendere.

Parole sante #2

Ma sono gli uomini a volere che i veggenti siano ciechi, e i clienti, si sa, non vanno mai delusi.


Friedrich Dürrenmatt, La morte della Pizia



sabato 21 agosto 2010

Parole sante #1

Il fascismo: un orologio fermo che due volte al giorno segna l'ora esatta. E' questione di un attimo. Ma in quell'attimo grida: "Spacco il minuto!" e tutto finisce qui, il Tempo non si ferma.


Ennio Flaiano, La solitudine del satiro



Che fare?

Partiamo da due conti, semplici semplici. 

Secondo la Corte dei Conti (p. 237), il costo annuale della corruzione nella pubblica amministrazione in Italia ammonta a circa 50-60 miliardi di euro annui (nella sua relazione il Procuratore Generale Pasqualucci parla di "tassa immorale ed occulta pagata con i soldi prelevati dalle tasche dei cittadini"). 
Secondo le stime annuali del Sole 24 Ore, il mancato gettito fiscale derivante dall'economia sommersa ammonta ad un valore compreso tra i 104 e i 118 miliardi di euro.

Anche senza considerare tanti altri fattori rilevantissimi di costo sociale quali la criminalità organizzata, la lentezza della giustizia o la cattiva sanità, la corruzione e l'economia sommersa da sole costano al nostro paese, cioè a noi, più di 150 miliardi di euro l'anno. Circa 6 volte la maxi-stangata fiscale di quest'anno. Pensateci per un attimo: 6 maxi-stangate l'anno, tutti gli anni. Una ogni due mesi. Stangate i cui proventi non vengono nemmeno incassati dalla collettività, ma rappresentano un vero e proprio trasferimento dai cittadini onesti a quelli disonesti. E peraltro, anche le tasse che vengono pagate e incassate dall'erario vengono utilizzate in modo piuttosto inefficiente visto che drenano più risorse che in quasi tutti gli altri paesi europei, restituendo meno servizi sociali. Forse abbiamo qualche indizio per capire come mai i nostri livelli di benessere stanno lentamente ma inesorabilmente scivolando indietro rispetto a quelli degli altri paesi ad alto livello di sviluppo socio-economico.

Che cosa sarebbe oggi l'Italia se queste stesse risorse avessimo potuto investirle ogni anno nel sistema formativo, nei servizi pubblici, nelle infrastrutture, nella solidarietà sociale? Non occorre molta immaginazione per capirlo. Ma c'è un problema: se non cambiano i meccanismi di controllo sociale che consentono di prevenire la corruzione e l'evasione, anche un eventuale recupero di risorse aggiuntive da spendere su obiettivi di interesse collettivo non si trasformerebbe necessariamente in maggior valore economico e sociale, e finirebbe in gran parte per ritornare in tasche sbagliate sotto altra forma. Finché il sentire comune resta quello che è, il nostro resta un paese nel quale la disonestà è eccezionalmente premiata a livello sociale, e quindi si diffonde attraverso un ovvio e prevedibile meccanismo di evoluzione culturale, incoraggiando i comportamenti disonesti che si diffondono così per emulazione, ed espellendo tutti coloro che non vogliono agire disonestamente e possono rifugiarsi in altri contesti nei quali l'onestà è premiata di più (o è penalizzata meno). E' un classico processo di selezione avversa a livello sistemico.

Supponiamo, ed è tutt'altro che improbabile, che l'Italia vada avanti così per altri dieci anni, aggrappata ai deliri autoreferenziali di una classe politica priva di credibilità ma inamovibile, che pensa che l'agenda politica del paese reale coincida con le proprie agende personali e che è in grado di creare le condizioni affinché questa propria aspettativa si auto-realizzi, destituendo la vita democratica di qualunque dimensione partecipativa effettiva. Supponiamo cioè che si vada avanti giorno per giorno per altri dieci anni 'tirando a campare', senza farsi nessuna domanda sul futuro, senza toccare gli interessi consolidati, di qualunque natura essi siano, e mantenendo quindi di conseguenza gli stessi livelli di evasione e di corruzione. Che paese sarebbe? Come ci si vivrebbe? Come si collocherebbe nello scenario socio-economico internazionale? Secondo me, molti italiani pensano ancora in cuor loro che l'Italia se la cava e se la caverà comunque, un po' come nella sigla di un vecchio varietà del sabato sera cantata da Enrico Montesano (Buon appetito all'Italia che va): "e se qualcuno dice che non mangia, non preoccuparti che anche lui s'arrangia...". 

Il problema è che mentre noi stiamo fermi e cerchiamo di vivacchiare, c'è chi si muove. La competizione globale di questi anni è un tapis roulant, e anche veloce: stare fermi vuol dire trovarsi a gambe all'aria in men che non si dica. Nello scenario attuale, il ruolo della politica è essenzialmente quello di costruire e proporre percorsi credibili di sviluppo a medio-lungo termine. E quindi, chiunque si interroghi seriamente sul futuro di un paese delle dimensioni e dell'importanza dell'Italia che naviga a vista senza senza alcun piano, e senza che nessuno si ponga il problema, non potrà che dedurne che ci troviamo di fronte ad una situazione da allarme rosso. E perché allora, con qualche sparuta eccezione come quella offerta dalle considerazioni finali del Governatore della Banca d'Italia, nessuno ne parla? Personalmente, sono convinto che in realtà in Italia siano in molti a preoccuparsi di questo vuoto pericolosissimo di visione, di idee, di proposte. Ma perché nessuno sembra interessato a colmarlo, questo vuoto?

Forse, nel più classico stile italico, stiamo facendo come facciamo sempre. Il metodo ormai lo conosciamo bene: scegliamo la strada più comoda e poi si vedrà. Lasciamo costruire sulle falde di un vulcano attivo o nel letto di un fiume perché comunque il problema quotidiano va risolto, e 'poi' ci si penserà. Intanto si è dato un tetto a tante famiglie (e vai con Montesano: "buon appetito da Leuca a Cantù, da su a giù, da giù a su..."). Quando il 'poi' arriva, quando cioè si verifica il prevedibile evento catastrofico, ci chiediamo come mai si è costruito lì, andiamo in cerca di responsabili di comodo e ci mettiamo a discutere di possibili soluzioni. Abbiamo bisogno di una catarsi, dunque? No, neanche questo è vero: quando arriva la catastrofe non c'è niente di meglio, dalle nostre parti, per creare nuove corsie preferenziali di trasferimenti non trasparenti di risorse in base alla logica dell'emergenza, e quindi per rafforzare la selezione avversa che ci sta strangolando. L'Italia ha una scarsa propensione alla catarsi: la tragedia è solo una nuova fonte di opportunità per fare di più e meglio quel che si faceva prima. La storia non dà lezioni, la storia va rimossa, il prima possibile.

E allora? Provare a far rinascere dal basso una cultura politica partecipativa? E' una strada lunga e difficile, in un paese così avvelenato dalla degenerazione del civismo politico. Ma ci sono reali alternative praticabili per uscire dal pantano? 

Che fare? 



lunedì 16 agosto 2010

Dieci anni sprecati (che non torneranno più...)

In questi giorni, Forbes ha pubblicato la lista dei 50 marchi globali di maggior valore. I nostri media hanno più o meno tutti commentato che non ce n'è nemmeno uno italiano (c'è Gucci, al 50mo posto, ma da anni è di proprietà francese), e tutto è finito lì. Nessuna particolare reazione dagli addetti ai lavori o dall'opinione pubblica. Abbiamo altro a cui pensare, come ci viene detto con una certa insistenza. E invece è un dato su cui varrebbe di fare una riflessione più approfondita. Prima di tutto, guardando con più attenzione i dati, si nota che l'Italia è l'unico paese del G7 a non avere nemmeno un marchio globale tra i primi 50. Inoltre, emergono altrettanto chiaramente alcune tendenze aggregate per paese: gli USA sono i dominatori assoluti, con 33 marchi su 50, distribuiti in uno spettro molto ampio di settori produttivi. Il Giappone ha 4 marchi, la Germania e la Francia 3 ciascuno, il Regno Unito e la Svezia 2. I profili sono molto diversificati: se Giappone e Germania sono focalizzati su automobilistico e software (con l'aggiunta dell'elettronica per il Giappone), la Francia è concentrata sulla moda e sulla cosmetica, il Regno Unito si divide tra telecom e banche. La Svezia ha ben due marchi legati al design: arredamento e moda low-cost. Ci sono la Svizzera col caffè, la Corea con l'elettronica, la Finlandia e il Canada con l'hardware. In alcuni di questi settori (il cibo e la moda, quantomeno), ci si sarebbe aspettati di trovare l'Italia. Si potrebbe commentare che la nostra assenza è dovuta in ultima analisi al fatto che il tessuto produttivo italiano è fatto soprattutto di piccole e medie imprese, che le cose in fondo sono andate sempre così, che il made in Italy non ha bisogno di grandi marchi globali. Ma è vero? Ci sono motivi per dubitarne. I marchi globali sono importanti perché rendono visibile l'intero sistema produttivo di un paese: basta pensare a cosa hanno fatto marchi come Ikea o Nokia per paesi come la Svezia e la Finlandia, ma per rimanere su paesi con noi più confrontabili, il fatto che la Francia abbia marchi globali come Vuitton o L'Oreal (e che abbia finito per acquisire anche il nostro marchio più visibile globalmente, Gucci, il cui gruppo ha in portafoglio altri marchi di prestigio come Bottega Veneta e Sergio Rossi) mentre l'Italia non ne ha, produce una identificazione molto maggiore per i nostri cugini transalpini con i territori della moda e del lusso, soprattutto nei confronti dei consumatori dei nuovi mercati emergenti: una differenza di massa critica che potrebbe far sì che il divario possa ulteriormente aumentare in futuro.

Un'altra obiezione che si potrebbe avanzare è che una lista di 50 marchi è troppo breve: se ce ne fossero 100, troveremmo dei marchi italiani. E' possibile verificarlo? Certamente sì: da molti anni Interbrand pubblica una classifica annuale dei 100 marchi di maggior valore simile a quella di Forbes. Qualche differenza c'è (in fondo la valutazione di un marchio è una operazione complessa che non esclude qualche elemento di arbitrarietà di giudizio) ma nella sostanza i risultati complessivi sono simili. E sì, in questo caso ci sono tre marchi italiani: Prada, Ferrari ed Armani, nelle parti basse del ranking (tutti sotto la 85ma posizione). Un motivo per consolarsi dunque? Se si analizzano i dati, non tanto. Perché? Proviamo a ragionare in questo modo: dividendo il valore complessivo dei marchi globali di un paese per il suo PIL (e moltiplicando per un opportuno fattore di scala per rendere le cifre più leggibili, in questo caso 1.000.000) otteniamo una sorta di indice che ci dice più o meno quanta della capacità di produrre valore da parte di un paese si traduce in marchi globali. Effettuando questa operazione per tutti i paesi che hanno marchi tra i primi 100, viene fuori questa figura (BV=brand value; GDP=PIL, elaborazione nostra):



Nel caso della Finlandia, Nokia, che è uno dei marchi di maggior valore assoluto, ha un peso notevolissimo (in termini relativi) sul PIL complessivo, ed è in effetti eccezionale che un paese economicamente tanto piccolo sia riuscito a produrre un marchio globale di questo livello. Seguono poi due paesi economicamente piccoli ma altrettanto agguerriti (e peraltro diversificati su più marchi) come Svizzera e Svezia, e gli USA che rappresentano decisamente un caso a sé: pur con la loro dimensione economica, riescono ad avere una incidenza di marchi globali superiore a quella di tutte le altre grandi economie. Seguono poi, a livelli intermedi, le due economie europee 'renane' (Germania e Francia) e la Corea del Sud, che può far valere gli ottimi risultati nell'elettronica e nell'automobilistico. Poi, in una categoria ancora inferiore, due economie di primo piano come il Giappone e il Regno Unito, il Canada e i Paesi Bassi. Infine, l'Italia e la Spagna, che rappresentano le due economie con minore capacità di trasferire il valore nei marchi globali. Quindi non è semplicemente una questione di numero di marchi: una nostra diretta concorrente sui mercati strategici dal punto di vista dei marchi globali come la Francia ha una visibilità molto superiore alla nostra. Ma è stato sempre così?

La risposta è: no. Se andiamo a riprendere i dati pubblicati da Interbrand per un anno di grande euforia finanziaria come il 2006, e se risaliamo ancora fino all'inizio del decennio, in particolare al 2001, e confrontiamo i valori del nostro indice nelle varie epoche, troviamo un andamento piuttosto interessante (elaborazione nostra):



Rispetto al 2001, il peso relativo dei marchi globali negli USA è diminuito nel tempo, perché è aumentata la concorrenza degli altri paesi (nel 2001 erano americani ben 62 marchi globali su 100, nel 2009 'soltanto' 51), e anche un paese come la Finlandia ha visto diminuire il peso relativo del suo unico grande marchio grazie alla crescita del resto dell'economia. La Svizzera ha avuto una impennata del peso dei grandi marchi nel 2006, cioè in piena euforia dei mercati finanziari, ed è comprensibile poiché alcuni dei suoi marchi più importanti sono legati al lusso. La Svezia, viceversa, ha avuto un andamento opposto: da un lato perché al contrario i suoi marchi sono legati al low-cost, dall'altro perché si è avuto un importante cambiamento strutturale: è sparito dalla classifica un grande marchio legato all'elettronica come Ericsson mentre aumenta in modo sensibile il valore di Ikea (ma anche di H&M). I casi della Finlandia e del Canada (che nel 2009 ha in classifica Blackberry e un grande gruppo editoriale come Thompson Reuters) mostrano poi chiaramente quali sono le opportunità che si aprono per i paesi che investono con decisione sui temi dell'economia della conoscenza e dell'innovazione.

Ma il dato più interessante per noi è quello dei paesi con noi meglio confrontabili: Francia, Germania, Regno Unito. Si vede molto chiaramente che nel 2001 la situazione dei grandi paesi industriali europei non era poi così diversa: a parte la Germania, che ha mantenuto costante nel tempo un valore alto dell'indice dovuto alla solidità dei suoi marchi (che non a caso crescono di valore più o meno col ritmo di crescita dell'intera economia tedesca) i valori per gli altri tre paesi erano relativamente vicini all'inizio del decennio (dal circa 12 del Regno Unito al circa 10 della Francia al circa 7 dell'Italia). Ma nel 2006, la situazione cambia: mentre Germania e Regno Unito mantengono le loro posizioni, l'indice francese schizza dal 10 al 24 circa: più che un raddoppio, mentre quello italiano crolla dal 7 al 4 e mezzo circa. Anche un paese un tempo emergente come la Corea del Sud segue lo stesso andamento della Francia, operando un grande salto di visibilità sul mercato globale.

In altre parole, negli anni in cui la competizione sul mercato globale ha cominciato a farsi agguerrita (in particolare, i primi anni del nuovo secolo), la nostra più diretta concorrente è riuscita a concentrare le proprie energie competitive verso il consolidamento globale dei propri marchi di punta, mentre noi, al contrario, abbiamo perso capacità in questo senso. Addirittura, il nostro concorrente diretto ha acquisito il nostro marchio migliore nel settore di maggiore visibilità (la moda). La nostra capacità di produrre marchi globali è attualmente pari, in proporzione, a quella spagnola, con due differenze: primo, che i nostri marchi attualmente in classifica hanno poco potenziale di crescita ulteriore rispetto alla situazione attuale (Armani, Prada, Ferrari) mentre il marchio spagnolo (Zara) presenta ancora margini potenziali di crescita notevoli; secondo, che il nostro potenziale attuale lo abbiamo raggiunto con un andamento discendente, mentre la Spagna solo tre anni prima non aveva (e non aveva mai avuto) marchi globali. Bisognerà inoltre tenere conto del fatto che economie emergenti come la Cina, l'India e il Brasile, tanto per fare gli esempi più ovvi, non hanno ancora marchi globali ma è evidentemente solo questione di tempo, quindi la competizione futura sarà ancora più dura e selettiva.

Abbiamo perso una occasione cruciale, quella che ci veniva offerta da un periodo in cui i mercati globali lasciavano ancora aperte molte opportunità e c'erano le risorse e le possibilità per una strategia lucida ed efficace di potenziamento del nostro made in Italy. Li abbiamo, evidentemente, sprecati (erano gli anni in cui eravamo impegnati ad incubare l'Italia in cui viviamo oggi, avevamo altro a cui pensare), a differenza di quanto hanno fatto i nostri cugini transalpini. Oggi, la situazione è cambiata, e con tutta probabilità sarà difficile prendere un altro treno come quello: oggi, bisognerebbe saltare molto più in là di allora per ottenere lo stesso risultato. Siamo già usciti, come abbiamo visto, dalle classifiche più selettive dei marchi globali come quelle di Forbes. Ma di questo, a quanto pare, non importa a nessuno. I nostri giornali parlano d'altro, continuiamo ad avere ben altri problemi, noi. E poi, vuoi mettere il nostro made in Italy, che tutto il mondo ci invidia. La nostra magic Italy. Buona continuazione, e sogni d'oro.

venerdì 13 agosto 2010

Uno strano paese chiamato Urania

Un amico che ama viaggiare mi ha parlato di un paese chiamato Urania in cui afferma di essere stato recentemente. In questo paese, dice lui, si racconta che la pubblica opinione sia dominata da una strana casta di personaggi che tutti chiamano i Censori Tonanti. Non si sa bene cosa facciano queste persone, nella vita, oltre che naturalmente fare i Censori Tonanti, cioè proclamare i loro giudizi apodittici su tutto ciò che gli passa per la testa, persone, cose, animali, lettere e testamenti, dall'alto di torri cilindriche di colore grigio scuro. Per la proclamazione, usano grandi megafoni dorati che ricevono in dotazione quando sono ammessi nella casta. In genere proclamano al mattino, ma se serve, fanno anche gli straordinari, pomeriggio e sera.

La cosa curiosa è che tutti i membri della casta hanno un'età dai cinquantacinque anni in su. Non si sa bene come mai. Pare che, a quelli che hanno meno di cinquantacinque anni e fanno richiesta per avere in prestito per qualche minuto un megafono e poter dire qualcosa anche loro, venga in genere rivolta questa domanda: "Dove hai passato gli ultimi venti anni, e perché?".  Pare che, agli sconsiderati che rispondono cose tipo "Ad Urania, naturalmente, perché credevo fosse giusto fare qualcosa per il mio paese" venga risposto più o meno così: "A Urania?? Come?? Cacciate subito questo pezzente!", e venga loro sbattuta in faccia la porta senza tanti complimenti. Se invece si risponde qualcosa come "Ho passato la maggior parte degli ultimi vent'anni nel Paese della Maga Circe perché sapevo che Urania fa schifo e lì ho trovato gloria ed onori", allora in genere pare si ottenga il permesso di usare sporadicamente il megafono e si venga ammessi alla lista d'attesa per diventare Censori Tonanti (prima, dicono che le regole di ammissione fossero diverse), ammesso che si sia disposti a rimanere in prova fino al raggiungimento della fatidica soglia di età e ci si impegni fin da subito ad assumere il tono di voce tipico delle proclamazioni dei Censori Tonanti in carica.

A questo punto, pare che quelli che erano rimasti ad Urania per gli ultimi vent'anni abbiano mangiato la foglia e abbiano cominciato a proporsi pubblicamente di andarsene anche loro nel Paese della Maga Circe o in qualche altro bel paese vicino, e abbiano oltretutto iniziato a consigliare ai giovani di non ripetere il loro errore e di andarsene subito, finché si è ancora in tempo utile. Apriti cielo! Sembra che i Censori Tonanti (alcuni dei quali, a quanto dicono, nemmeno ci vivono, ad Urania) si siano arrabbiati moltissimo. Come ci si può permettere di sconsigliare i giovani, i nostri virgulti, dal rimanere ad Urania? Ad Urania, argomentano i Censori Tonanti tuonando dentro i loro megafoni dorati, per i giovani c'è un sacco di posto. Loro, i Censori, infatti, che sono tutti ottimi padri di famiglia, ai loro figli hanno già provveduto da tempo. Certo, non tutti in futuro potranno ereditare il posto del padre e diventare a loro volta Censori Tonanti, ma ci sono tanti altri bei mestieri, ben remunerati, ai quali farli dedicare dopo averli opportunamente introdotti ai pari grado delle rispettive caste: i Pettinatori di Bambole, i Divoratori di Cadaveri su Commissione, gli Approvvigionatori di Carne Fresca, i Venditori di Uova Marce di Giornata, i Nettatori Multiuso, e tante altre. Quindi, di fronte a tanta bella gioventù felicemente operosa, come si fa a dire che ad Urania non c'è posto per i giovani?

Questo, mi racconta il mio amico. Non so che ne pensate voi, ma secondo me il mio amico mi ha detto un sacco di balle. Dài, mica può esistere, un paese così. Deve essersi ispirato a qualche pagina poco conosciuta di Samuel Johnson.

mercoledì 11 agosto 2010

Qualche idea concreta per un modello sensato di sviluppo futuro del Cratere

Ho scritto questo saggio nell'estate del 2009, per la maggior parte tra le montagne dell'Abruzzo. E' stato pubblicato nel Sesto Rapporto Annuale Federculture, Etas, Milano, pagine 59-74, 2009. Ad essere sinceri, rileggendolo retrospettivamente in questi giorni, mi viene da pensare che le raccomandazioni della Struttura Tecnica di Missione che discuto nel post precedente rappresentino un esempio di quello che nel testo chiamo "il marketing territoriale dell'ovvio".

Come se niente fosse

Ho letto con attenzione le "Linee di indirizzo strategico per la ripianificazione del territorio" elaborate per L'Aquila e il territorio del Cratere dalla Struttura Tecnica di Missione nominata dal Commissario alla Ricostruzione post-sisma. Devo dire che sono abbastanza sconcertato, e proverò a spiegare concisamente il perché.

Il documento si apre con una ampia sezione di analisi socio-economica della situazione territoriale. La prima cosa che salta all'occhio è che, al di là di qualche riferimento sporadico alla "tragedia del 6 aprile", tutta l'analisi è condotta come se ci si dovesse occupare di una qualunque area in ritardo di sviluppo del mezzogiorno italiano. I dati relativi alle imprese, all'università, persino alla popolazione residente sembrano fare riferimento ad una situazione precedente al sisma. I dati sulla popolazione, in particolare, sono aggiornati a quanto contenuto nel Bilancio Demografico ISTAT al 30 novembre 2009: è un dato che misura gli effetti demografici prodotti dal sisma in questi mesi? Ne dubito, anche perché molti di questi effetti si sono prodotti e si continuano a produrre ben oltre il novembre 2009. Capisco che le fonti statistiche siano quelle, ma in un caso come questo non sarebbe utile avere un quadro attendibile della situazione attuale? E in particolare, quello che proprio vorrei sperare, visto che i dati demografici  riportati nel testo sono precisi al livello dell'unità (quello della della popolazione aquilana, ad esempio, è 72.710) è che queste cifre, almeno, non comprendano anche i morti del 6 aprile. Statisticamente farebbe poca differenza, eticamente sarebbe davvero intollerabile.

Al di là di questo, comunque, l'analisi socio-economica del documento, malgrado si protragga per decine di pagine (che riportano per lo più informazioni derivate dalle statistiche ufficiali e dai documenti di pianificazione regionali) riesce, incredibilmente, a non menzionare praticamente MAI (e men che meno a fare i conti con) tutte le principali criticità che si riscontrano oggi sul territorio del cratere:

- l'incenerimento del tessuto di piccola-media impresa distrutto dalle difficoltà logistiche, dal crollo delle commesse, dalle scadenze fiscali, dal trasferimento delle attività stesse in aree meno problematiche;
- lo spopolamento prodotto dai trasferimenti dei nuclei familiari che hanno deciso di vivere altrove;
- lo sgretolamento del tessuto sociale prodotto dalla frammentazione connessa al piano emergenziale di riurbanizzazione (le C.A.S.E.) e soprattutto l'impatto che questa ha prodotto sulla popolazione anziana, sradicata dalle proprie, cruciali relazioni di prossimità e quindi molto più esposta che in passato al deterioramento della salute fisica e psicologica;
- la grave situazione dell'università (che il documento indica come motore dell'economia locale, ma facendo riferimento a grandezze economiche chiaramente riferite al pre-sisma!);
- l'incertezza circa l'entità e la destinazione delle risorse disponibili per la ricostruzione;
- il deterioramento drammatico dei tempi di spostamento causati dalla congestione delle poche vie di comunicazione disponibili;
- la mancanza di luoghi di aggregazione al di fuori degli spazi della grande distribuzione;
- il pendolarismo quotidiano di un gran numero di residenti costretti ad abitare temporaneamente in aree lontane dal luogo di studio e di lavoro;
- il disagio della popolazione giovanile.

Potrei andare avanti ma mi fermo qui. Che senso ha parlare di ripianificazione ignorando nel documento di indirizzo tutte le principali criticità a cui questa dovrebbe fare fronte? Il punto è che il documento, essenzialmente (al di là, ripeto, di qualche riferimento marginale), non sembra impostato per ragionare su un processo di ricostruzione post-sisma, quanto piuttosto per rilanciare una qualunque area depressa. E questo produce conseguenze pratiche di non poco conto.

In nessun punto del documento, ad esempio, si parla in modo concreto e sostanziale di un coinvolgimento attivo della popolazione residente al processo di ricostruzione del tessuto economico e sociale, contrariamente all'orientamento che prevale a livello internazionale. E in particolare le analisi mostrano chiaramente che la partecipazione nei processi di ricostruzione post-catastrofe non può e non deve limitarsi all'impiego di forza lavoro locale (fatto, anche questo, tutt'altro che garantito a L'Aquila) ma deve tradursi in un coinvolgimento attivo e responsabile della comunità locale nel processo decisionale a tutti i livelli. E' interessante notare come molte delle analisi disponibili in letteratura si riferiscano a casi di paesi in via di sviluppo. Se si raccomanda che nel processo decisionale vadano coinvolte popolazioni locali che tipicamente sono affette da basso grado di scolarizzazione e da varie forme di deprivazione socio-culturale, è veramente difficile capire perché questo non dovrebbe avvenire in Abruzzo, in un capoluogo di regione di un paese del G8, città universitaria, ricco di competenze locali.

E quali sono dunque le idee che vengono proposte per dare vita ad un nuovo modello di sviluppo locale, al Cratere del post-sisma? Al di là di alcune metafore prive di significato concreto e più vicine alla retorica da convegno che a veri indirizzi di politica territoriale (esaltare il ruolo di "cerniera" dell'Abruzzo rispetto ai vari corridoi logistici internazionali, dare vita alla "Città-territorio", trasformare il cratere in una "Piattaforma strategica"), le proposte sono essenzialmente due: migliorare l'accessibilità e la percorribilità dell'area, e promuovere il turismo e le produzioni locali di qualità. Vale a dire, né più né meno di ciò che un qualunque consulente di marketing territoriale avrebbe consigliato ad un qualunque territorio depresso del mezzogiorno d'Italia. Vale a dire, un modello di sviluppo locale che, nella sua monotematicità, nel dibattito internazionale appare obsoleto da tempo. Poi, naturalmente, si raccomanda di limitare il consumo di territorio e di ricostruire sui luoghi della città esistente, cioè ciò che gli aquilani chiedono incessantemente dal primo momento in cui si è potuto tornare a parlare di ricostruzione, e il contrario di ciò che si è fatto in pratica. Ma è già una buona notizia che, di fatto, il documento ammette che quelle scelte forse non sono state le migliori possibili. Ricostruire sul territorio già edificato, dunque. Ma  con quali strumenti, con quali risorse, con quali priorità? Il piano, sostanzialmente, non lo dice. Forse un documento di indirizzo strategico farebbe meglio a parlare di questo piuttosto che riportare dotte ma controproducenti citazioni di Braudel (p. 80). Controproducenti perché gli estensori del documento, di fatto, fanno il contrario di quel che Braudel, il grande storico francese, raccomanda nel passaggio riportato nel documento. Braudel spiega che l'esistere di un territorio si fonda sulla sua identità differenziale rispetto ad altri. Peccato che in tutto il documento non ci sia nemmeno un frammento di vero ragionamento sull'identità possibile di questo territorio e su come fare in modo che essa possa essere plasmata dalla partecipazione attiva della comunità locale. Peccato che quello che viene invece suggerito è di adeguare al più presto e quanto meglio possibile il territorio al modello standard del turismo sciistico-gastronomico: la classica ricetta che nell'Italia montana è buona per tutte le occasioni (convegni, conferenze stampa, studi di fattibilità) e che però funziona solo dove già funzionava bene anche prima che qualcuno la suggerisse.

L'impressione è che questo documento sia stato prodotto senza avere una chiara cognizione della reale situazione locale. Per lunghi tratti, soprattutto nel cruciale capitolo 3 sulle linee di indirizzo strategico, si potrebbe tranquillamente sostituire la parola "Cratere" con qualunque altro toponimo del sud Italia e il ragionamento filerebbe lo stesso, anche perché molto dello spazio viene occupato per presentare considerazioni abbastanza accademiche e di scarsa rilevanza pratica, soprattutto se riferite alla drammatica quotidianità e all'ancora più drammatica ansia di futuro degli aquilani. Per non parlare dei problemi a cui facevo riferimento sopra, e che vengono del tutto ignorati.

Credo che l'Abruzzo, che il Cratere, che L'Aquila meritino qualche sforzo in più. E qualche barlume di idea vera, pensata per il contesto, che apra una prospettiva di futuro credibile.

venerdì 6 agosto 2010

Confronti: il CNEL e il NESTA (no, non il calciatore...)

Il CNEL è un "Organo di consulenza delle Camere e del Governo" previsto dall'articolo 99 della Costituzione. Ha potere di iniziativa legislativa in ambito economico e sociale. Si compone di centoventuno consiglieri (12 esperti, 44 rappresentanti dei lavoratori dipendenti del settore pubblico e privato, 18 rappresentanti del lavoro autonomo, 37 rappresentanti delle imprese, 10 rappresentanti delle associazioni di promozione sociale e delle organizzazioni di volontariato). Costa all'incirca 20 milioni di euro l'anno e in 50 anni di vita ha prodotto 16 disegni di legge, meno di uno ogni tre anni. Il che vuol dire che ciascuno di questi disegni di legge è costato in media poco più di 60 milioni di euro. Non c'è quindi da sorprendersi se ultimamente si levino da più parti richieste abbastanza insistenti di una sua abolizione.

L'impianto del CNEL, che è rimasto sostanzialmente immutato nei decenni, riflette una concezione della politica economica che forse poteva avere un senso nel secondo dopoguerra, ma che oggi è difficile non giudicare drammaticamente obsoleta e poco difendibile dal punto di vista di una serena analisi costi-benefici. Abolire dunque? In realtà, di un organo che sia capace di fornire elaborazioni e proposte per le strategie di politica economica sui temi e nei settori di interesse strategico a livello nazionale, complementare a quanto già fa (piuttosto bene) l'Ufficio Studi della Banca d'Italia nei suoi ambiti di competenza, può esserci bisogno, ammesso che sia produttivo e che consumi un livello di risorse pubbliche ragionevole. Certo è difficile che questo possa accadere in un organo che si serve di una compagine abbastanza elefantiaca di consiglieri, magari neanche troppo assidui nella loro presenza, piuttosto che di una squadra competente e agguerrita di tecnici (economisti, giuristi, sociologi, scienziati della politica, per limitarci alle aree più ovvie): con un budget come quello attuale, si potrebbe attingere senza problemi al job market internazionale delle competenze in questi campi, naturalmente con una attenzione privilegiata ai migliori giovani PhD italiani emersi dalle università nazionali e straniere negli ultimi anni. Ed è facile prevedere che in questo modo si avrebbero risultati molto più utili a dare forma alle strategie di politica economica di medio-lungo termine per il nostro paese.

Un semplice confronto può essere utile per capire meglio. Nel Regno Unito esiste il NESTA (National Endowment for Science, Technology and the Arts), un organo indipendente la cui missione è quella di rendere il Regno Unito più innovativo, e quindi più competitivo a livello globale. Il NESTA opera a costo zero per il contribuente britannico, si finanzia attraverso la gestione di un fondo di dotazione di 300 milioni di sterline fornito dalle Lotterie Nazionali e sostiene le proprie attività grazie agli interessi sul fondo di dotazione, al reddito derivante dai propri investimenti finanziari e a vari finanziamenti pubblici e privati legati a singole iniziative. Il NESTA ha tre aree principali di azione: investe nelle imprese innovative nelle loro prime fasi di sviluppo, fornisce analisi ed elaborazioni per la politica economica nazionale, ed elabora progetti e piani d'azione concreti che aiutino il sistema paese ad individuare e ad affrontare le più rilevanti sfide future. Direi che suona molto simile a quello che si potrebbe sperare da una ragionevole riforma e riorganizzazione del CNEL, che per di più ha a disposizione un rilevante budget pubblico annuale.

Il NESTA impiega un team di giovani ricercatori di notevole competenza, e di volta in volta coinvolge nelle sue attività di elaborazione e ricerca alcuni dei maggiori esperti a livello mondiale. Non sto a dilungarmi sui risultati che produce e sull'impatto delle sue attività sulla politica economica nazionale: vi invito a verificarlo da soli attraverso la lettura dei report e delle rassegne annuali di attività, e se volete davvero approfondire attraverso la lettura dei documenti di policy che vengono prodotti a getto continuo dal centro studi (che potete confrontare, se volete, con quelli prodotti dal nostro CNEL). E in più, come ho già accennato, al NESTA investono anche sui nuovi progetti imprenditoriali giudicati più promettenti sulla base di criteri precisi e stringenti. Vedrete da soli come tutta l'attività nasca da una precisa impostazione strategica, che viene presentata, condivisa, valutata e revisionata al termine di ogni ciclo annuale di attività attraverso il confronto con vari, specifici advisory boards e un auditing molto rigoroso. Il NESTA è sicuramente, in questo momento, uno dei luoghi di elaborazione più autorevoli e dinamici sulle politiche economiche non soltanto a livello nazionale, ma a livello europeo.

Ho conosciuto personalmente il direttore dell'ufficio studi al NESTA, Hasan Bakshi, in una conferenza internazionale a Bruxelles sulle industrie creative. Ero il moderatore di una tavola rotonda in cui lui era chiamato a presentare il (notevole) lavoro del NESTA in questo ambito. Hasan è un ragazzo giovane, brillante e pieno di energia. Ha studiato a Cambridge e ad Oxford, è stato consulente del Consiglio Nazionale del Cinema inglese e ha lavorato come economista alla Bank of England, come Executive Director in Lehman Brothers, e come Vice Capo Economista al Foreign and Commonwealth Office. Il profilo professionale di Hasan è rappresentativo del criterio con cui è costruito lo staff dell'Ufficio Studi del NESTA.

In sintesi, la situazione è questa: da noi, c'è un organo fondamentale per l'elaborazione della politica economica che ha un esercito di consiglieri che hanno comunque altre occupazioni (spesso, molte altre), non sembra brillare per produttività e costa ai contribuenti 20 milioni di euro l'anno. Nel Regno Unito, c'è un organo con funzioni simili ma debitamente aggiornate ai nuovi scenari della competitività internazionale, le cui risorse vanno essenzialmente a garantire il lavoro di uno staff di professionisti di altissimo livello full time e di esperti di fama internazionale, è un centro riconosciuto di eccellenza mondiale e non costa un euro ai contribuenti in quanto si autofinanzia sulla base di un fondo fornito dalla Lotteria Nazionale. Vedete un po' voi.

La prossima volta che qualcuno vi dice che in Italia sarebbe bello dare opportunità concrete ai nostri giovani, migliori talenti nella ricerca socio-economica e ai nostri imprenditori in erba più innovativi ma non si può fare perché mancano le risorse, per favore, fategli una pernacchia da parte mia. Grazie.

giovedì 5 agosto 2010

Un paese animal friendly?

Il ministro Brambilla paragona oggi il Palio di Siena alla Corrida e di fatto ne caldeggia l'abolizione in quanto fonte di malversazioni e di sofferenze per i cavalli. A causa di ciò, secondo il ministro, il Palio di Siena danneggerebbe la percezione del made in Italy all'estero (sic). Il ministro inquadra questa sua iniziativa all'interno di un più ampio piano di azione volto a fare dell'Italia 'un paese animal friendly'.

Io non so quanto il ministro conosca davvero il Palio di Siena, la sua storia, il suo significato, ciò che accade effettivamente. Se approfondisse, forse scoprirebbe che il Palio di Siena è un vero e proprio mondo culturale straordinariamente complesso, che con buona probabilità entrerà a far parte nella lista UNESCO del patrimonio intangibile dell'umanità. Per cui, ridurre il Palio di Siena ad una corsa di cavalli è più o meno simile al ridurre il Cammino di Santiago ad un percorso di trekking.  A mia modesta opinione, se tutti gli italiani amassero e rispettassero i cavalli quanto li amano e li rispettano i senesi (che non a caso si attengono ai più rigidi protocolli di tutela) saremmo un paese molto, molto più civile da questo punto di vista. Ma se il ministro vuole portare avanti una battaglia, senz'altro condivisibile, per rendere il nostro paese più animal friendly (e per altro in un ambito nel quale il legame con il made in Italy appare meno controverso), le suggerirei piuttosto di cominciare dal caldeggiare una legge che proibisca ogni forma di allevamento che comporti forme intollerabili di sofferenza per gli animali. O forse le galline, i vitelli o i pesci sono meno animali degli altri? Se si volesse, ci sarebbe ampia materia per intervenire. Certo, qualche interesse ne sarebbe toccato (e visto che il ministro ha aziende che si occupano di commercio dei prodotti ittici, avrebbe una ottima opportunità per dare il buon esempio). Ma per il made in Italy, questo sì che sarebbe un bel salto di qualità.

Quanto valgono le Dolomiti

In questi giorni sta facendo discutere il valore d'inventario che il Demanio sta assegnando alle nostre montagne in vista del trasferimento delle relative competenze agli enti locali. Succede così che quattro picchi dolomitici vengano valutati complessivamente all'incirca 12.000 euro, il prezzo di un'utilitaria. Si parla di non meglio specificati parametri 'tecnici' utilizzati per le stime, ai quali gli amministratori locali ribattono, ovviamente, che dal loro punto di vista si tratta di valutazioni senza senso. E in effetti, altrettanto insensati sono i paragoni subito provenienti dalla cronaca giornalistica tra il prezzo di una vetta e quello di un bilocale a Cortina d'Ampezzo - ovviamente a tutto favore del secondo.

Per i beni per i quali non esiste un mercato (e le montagne rientrano in questa categoria, per il momento), e soprattutto per quelli a cui la comunità attribuisce un valore e un significato storico-culturale (e anche qui, almeno per ora, le montagne rientrano nella categoria) l'applicazione di parametri metrico-estimativi tradizionali per stabilire il valore è una evidente assurdità. Non si può valutare una montagna come un certo quantitativo di tonnellate di materia rocciosa. Una montagna è parte integrante della vita e della storia di una comunità, e questo ha un valore economico e sociale che è iniquo non misurare.

Si potrebbe obiettare che queste sono belle parole, ma che la 'dura realtà dell'economia' è ben diversa. Il punto è che qui di duro c'è più che altro l'ignoranza di cosa sia davvero l'economia. Gli economisti hanno infatti elaborato da anni metodologie appropriate per valutare i beni ambientali e culturali che non possono essere oggetto di transazioni di mercato. E l'hanno fatto sulla base di urgenze ben precise, quali la necessità di quantificare il danno provocato da importanti catastrofi ambientali - il caso scatenante è stato, in particolare, il disastro provocato in Alaska dal naufragio della petroliera Exxon-Valdez nel 1989. Come è possibile valutare quanto vale un patrimonio bio-ambientale unico come quello dell'Alaska gravemente danneggiato dalla fuoriuscita del petrolio? La risposta è offerta dal metodo della valutazione contingente, secondo cui il valore va calcolato tenendo conto di almeno tre componenti: il valore d'uso, ovvero il valore che deriva dall'utilizzo diretto della risorsa a fini collettivi (e che può anche essere nullo se la risorsa non viene utilizzata per preservarne l'integrità), il valore di opzione, ossia il valore che si attribuisce al fatto di poter disporre della risorsa nel futuro (ad esempio, il valore che attribuiamo alla possibilità che nel futuro quella risorsa naturale possa contribuire a preservare l'equilibrio eco-ambientale del pianeta, o la possibilità che essa contenga dei principi attivi naturali che nel futuro si riveleranno utili a curare una malatttia, ecc.) e il valore di esistenza (ovvero, il valore che si attribuisce alla risorsa per il semplice fatto di esistere - che nel caso di un bene di notevole significato culturale può essere molto alto).
Come si quantificano queste componenti del valore? Semplice: facendole valutare, con modalità opportune, ai diretti interessati, ovvero a coloro che possono essere a buon diritto ritenuti legittimi portatori di interessi nei confronti della risorsa da valutare (in primo luogo, naturalmente, la comunità locale). Le tecniche di valutazione sono relativamente semplici, e naturalmente tutt'altro che libere da controversie di carattere metodologico, ma un panel di esperti nominato dalla NOAA, la National Oceanic and Atmospheric Administration statunitense nel 1993, e comprendente due premi Nobel per l'economia di sicura autorevolezza come Kenneth Arrow e Robert Solow, pur dando delle raccomandazioni molto stringenti per l'effettiva applicabilità di questo metodo ne ha di fatto legittimato l'uso. Stiamo quindi parlando di una tecnica largamente in uso da vent'anni in tutto il mondo. Da noi, a quanto pare, a parte gli specialisti, non se ne sospetta l'esistenza, e a nessuno viene in mente di chiedersi se confrontare il valore di una montagna con quello di un appartamento abbia senso, se non c'è un modo di capire qualcosa di più.

Con tutta probabilità, se si fosse operata una seria valutazione contingente del valore dei picchi delle Dolomiti, si sarebbe scoperto che le montagne 'valgono' molto di più di un appartamento a Cortina, e che allo stesso tempo non ha alcun senso paragonare questi due valori. Quanto di tutto questo è emerso sulla stampa italiana? Zero. Cosa rimane? Che le montagne sono belle ma, economicamente, non valgono niente. Ma tanto, alla prova dei fatti, al di là del dispiacere del sindaco del paesello, che cosa cambia? Impuntarsi sul valore di una montagna è una roba da accademici (cioè, da oziosi nullafacenti), dirà qualcuno. Bene, allora rispondete alla seguente domanda: qual è la probabilità che in caso di un futuro danno ambientale in un contesto montano italiano l'indennizzo per la comunità, viste queste valutazioni ufficiali e comunque incontestate nel merito, sia praticamente nullo? Rispondetevi da soli. Con buona pace dei montanari. E avanti il prossimo pezzo di colore in cronaca.

Valutare la ricerca

Su Repubblica di oggi, Carlo Galli spiega quanto sia importante valutare la ricerca oggi: un tema di cui nella nostra università si parla tanto ma su cui si fa molto poco. Ora, dover ancora argomentare che una valutazione della ricerca sia necessaria nel 2010 è un po' come dover argomentare che le norme di igiene e profilassi sono utili alla salute pubblica. Il bisogno di convincere gli altri di ciò che altrove è ovvio è semplicemente un segnale di preoccupante sottosviluppo di sistema.

Nell'argomentazione di Galli, tuttavia, ritrovo alcuni tic tipicamente italiani che forse è il caso di superare una volta per tutte: ad esempio, il far presente che gli indici di misurazione della produttività scientifica generalmente adottati, come l'ormai ubiquitariamente diffuso impact factor, non siano privi di difetti. E' ovvio che abbiano dei difetti. Non credo che esista un indice che non ne ha. Ma ancora una volta, stare a disquisire, nell'Italia di oggi, con il nostro sistema della ricerca ridotto così, con le nostre università assenti da posizioni dignitose di qualunque ranking della qualità accademica internazionale, i pregi e i difetti dell'impact factor è come disquisire sui dettagli delle evidenze sperimentali pro e contro il trattamento standard in un paese messo in ginocchio da una grave malattia endemica - e nel frattempo, naturalmente, sospendere ogni intervento sanitario o mettersi a sperimentare per conto proprio nuovi, fantasiosi protocolli che nessun altro segue.

Galli sottolinea in particolare come l'impact factor tenda a privilegiare la ricerca più consolidata (mainstream) e come si tratti di un metodo di valutazione concepito essenzialmente per la ricerca nelle scienze quantitative. In realtà, ci sono tante riviste che fanno ricerca ben poco mainstream e che hanno impact factor molto alti per la loro disciplina, e ci sono discipline che magari potranno non essere adeguatamente valutabili sulla base di un criterio di impact factor, ma per le quali esistono, e spesso da decenni, ovvi criteri di qualità applicati largamente nel resto del mondo. Anche in una facoltà di Letteratura, tanto per fare un esempio, nella quale probabilmente ci saranno poche riviste dotate di impact factor, è possibile capire quale ricerca raggiunga certi standard e quale meno: tutti i dipartimenti che attuano politiche serie di valutazione classificano gli editori e le riviste in fasce qualitative, così che il numero e l'entità delle pubblicazioni di ciascun ricercatore in ciascuna fascia qualitativa permettono di esprimere giudizi di merito magari distorti secondo qualche criterio (quale giudizio non lo è, da almeno un punto di vista?) ma quanto meno motivati e motivabili. E comunque lo spettro delle discipline che stanno adottando sempre più abitualmente il criterio dell'impact factor tende ad allargarsi rapidamente, anche nelle scienze sociali: dall'economia alla sociologia, alla scienza politica, all'antropologia, alla psicologia sociale, tanto per fare qualche esempio.

A livello globale si sta verificando una rapida convergenza verso quello che potremmo definire il modello standard di promozione/valutazione dell'eccellenza della ricerca: quello che àncora il reclutamento alla libera scelta delle università, che se ne assumono tutte le responsabilità, che liberalizza le remunerazioni dei ricercatori e dei docenti sulla base della loro performance (didattica e) scientifica, e che lega il valore del titolo di studio ai giudizi di enti valutatori indipendenti (pubblici e privati: perché anche nel campo della valutazione è possibile una competizione e vi sono criteri riconosciuti di attendibilità ed autorevolezza). Noi, in Italia, possiamo naturalmente continuare a fare come abbiamo sempre fatto: seguire regole nostre, bizantine, capziose, indifferenti agli standard internazionali. E se in effetti risultassimo poi in cime alle classifiche di rendimento e di qualità potremmo non soltanto permettercelo, ma magari fare persino scuola. Ma siccome è vero il contrario, e siccome sediamo tristemente e anonimamente negli ultimi banchi, forse sarebbe il caso di capire che se la maggior parte degli altri, e praticamente tutti quelli che ottengono i risultati migliori, si regolano con criteri diversi,  sarebbe magari meglio che ci dessimo una regolata anche noi. Altrimenti, andiamo pure avanti così. Basta solo un po' di sprezzo del ridicolo.

Nuotare controcorrente. Per quanto, ancora?

Nel 1988, quando mi sono laureato, l'Italia, con tutti i suoi difetti e le sue contraddizioni, mi appariva ancora come un paese ricco di possibilità. Per questo decisi di restare, diversamente da molti dei miei compagni di corso di quegli anni. Oggi, le cose sono diverse. Ogni giorno, quando mi sveglio, devo cercare qualche buon motivo che giustifichi la scelta di restare ancora, malgrado tutto, malgrado lo sconforto che segue, ormai invariabilmente, la lettura mattutina dei quotidiani. E' solo perché oggi ho più esperienza e consapevolezza che le cose mi appaiono tanto diverse? O effettivamente quello in cui vivo oggi è un paese sostanzialmente diverso da quello di allora? Pur con tutto il disincanto che arriva con il passare degli anni, non posso fare a meno di pensare che una vera mutazione culturale ci sia stata.

E in estrema sintesi, la mutazione mi pare consista in questo: mentre alla fine degli anni ottanta l'Italia era un paese in cui, con tutte le contraddizioni e i ritardi che comunque ci distinguevano, esisteva ancora la convinzione diffusa che il sapere e le competenze fossero fattori decisivi di crescita economica e sociale, e che quindi ci fosse spazio, ci fossero opportunità per lavorare sulle idee e sui progetti di cambiamento,  oggi questo sentire sembra completamente dissolto. Unico tra i grandi paesi industrializzati, l'Italia di oggi è diventato un paese in cui la formazione e la cultura vengono sentiti da tanti, da troppi come costi sociali, come spesa a fondo perduto da contenere quanto più possibile, e in cui la competenza, l'integrità intellettuale, la passione per le idee sono diventate pericolosi fattori di destabilizzazione da tenere sotto controllo, perché increspano lo stagno in cui prosperano e si riproducono le logiche familiari e familiste dell'appartenenza. Uno stato di cose particolarmente scioccante, visto dal di fuori, se riferito ad un paese che per alcuni decenni è stato un luogo imprescindibile della scena culturale globale e che oggi viene sempre più universalmente associato alla corruzione, al malaffare, alla volgarità. Siamo diventati una specie di paese alla rovescia swiftiano. Siamo persino al di là della satira, come conferma anche una superficiale rassegna stampa internazionale - che naturalmente scrive certe cose perché è invidiosa di noi (se una persona ragionasse così, si direbbe che è in piena negazione psicotica della realtà).

Sembra quasi che il nostro paese abbia deciso di suicidarsi: in un momento in cui è chiaro a tutti, ma proprio a tutti, persino agli ultimi arrivati, ai paesi emergenti dell'ultima ora, che il futuro dipende dal capitale di competenza, dalla capacità immaginativa, dalla visionarietà imprenditoriale che si è in grado di coltivare e di attirare a sé, e che quindi bisogna investire le proprie risorse di conseguenza, l'Italia di oggi sta facendo di tutto per andare nella direzione opposta, per auto-rappresentarsi come un paese decadente, centrato su modelli valoriali e comportamentali altrove improponibili e immerso in un delirio auto-referenziale di superiorità culturale legato a stereotipi ormai patetici nella loro totale, grottesca inattualità. E per completare l'opera, l'Italia di oggi sta facendo veramente di tutto per espellere i pochi superstiti che, a dispetto di ogni evidenza, credono che il nostro paese potrebbe tornare ad avere un posto su quella frontiera del pensiero e dell'apertura da cui si è allontanato tanto rapidamente e pericolosamente. Non è un caso che i temi della socio-economia della conoscenza di cui altrove tanto si discute e su cui spesso tanto si fa siano del tutto assenti, in modo rigorosamente bipartisan, dall'agenda politica dell'Italia di questi anni. E non c'è allora da meravigliarsi se nessuno abbia in questo momento da proporre al paese un progetto di sviluppo che possa offrire un quadro credibile e sensato di ciò che l'Italia potrebbe e dovrebbe essere da qui a dieci anni. Niente di strano, dunque se la nostra cronaca politica attuale attinga come unica materia prima a barzellette vecchie, motti di spirito di terz'ordine, luoghi comuni da avanspettacolo, astrusità senza senso.

Quando parlo con amici e conoscenti che hanno saltato il fosso e hanno scelto, magari dopo anni di frustrazioni di cui non di rado ho seguito personalmente lo stillicidio quotidiano, di andare a vivere e a lavorare all'estero, e che oggi mi raccontano (spesso, euforici) di quanto si viva bene e di quanto sia gratificante lavorare, finalmente, a Barcellona, a Parigi, a Londra, a Berlino, a Bruxelles, a Stoccolma (o in tanti altri posti che un tempo mi sarebbero sembrati decisamente improbabili), e di quanto la differenza sia evidente, palpabile, immediata, torno sempre a chiedermi per quanto sia ancora possibile continuare, qui, a nuotare controcorrente. E la risposta che mi do è ancora quella: è difficile, è sempre più difficile, ma forse, la corrente, un giorno cambierà. Mi illudo? Fino a quando?