venerdì 24 settembre 2010

Esclusi i presenti

Due pezzi dalla cronaca recente, apparentemente distanti per tema e implicazioni, danno invece, opportunamente accostati, tutto il senso dello sfacelo in cui siamo precipitati. Su Repubblica, Carlo Petrini racconta la sua esperienza in un teatro di Seul in cui giovani universitari coreani mettono in scena con competenza e passione la Traviata verdiana, in un clima di eccitazione palpabile. Non è un caso: in Corea del Sud è in atto un vero e proprio boom culturale che fa di questo paese uno dei laboratori più interessanti a livello globale (le produzioni musicali e video coreane stanno letteralmente conquistando l’Asia) e una vera e propria land of opportunity per i giovani professionisti della cultura; e in futuro avremo modo di parlarne anche in questo blog. In Corea si preparano grandi celebrazioni per il bicentenario verdiano e in effetti il morbo operistico sta contagiando l’estremo oriente, che non a caso produce da anni (con sempre maggiore efficacia e successo) un numero crescente di cantanti e musicisti classici di alto livello. Quello che colpisce, se si approfondisce l’atteggiamento sociale verso i temi della produzione e dell’espressione culturale di questi paesi, è l’etica del lavoro e del sacrificio di ragazzi spesso giovanissimi ma già fortemente motivati (anche grazie ad un contesto sociale che attribuisce alla cultura una grande importanza e investe di conseguenza), il loro senso di responsabilizzazione, il loro travolgente entusiasmo. Da noi le celebrazioni verdine avverranno probabilmente in tono minore perché notoriamente non ci sono risorse per la cultura e bisogna tagliare, tagliare, anche le eccellenze riconosciute, anche i progetti più indiscutibilmente sensati e importanti (come denunciato ormai quasi quotidianamente dai nostri migliori musicisti e uomini di cultura). E poi, che cosa può importare agli italiani di oggi di Giuseppe Verdi? Almeno una volta, quando c’era la sua faccia sulle banconote da mille lire, qualche motivo di interesse c’era. Ma ora? Abbiamo l’euro, Verdi non ci serve più. E’ nato duecento anni fa? Pace all’anima sua.

E qui arriva il confronto con la seconda notizia: abbiamo già parlato in un recente post dei costi diretti (e delle devastanti conseguenze indirette) della politica italiana, ma non sapevamo (e ce ne informa Carmelo Lopapa sempre su Repubblica) che a quei livelli di indennità già senza paragoni in tutti gli altri paesi occidentali deve aggiungersi un costo giornaliero per gli affitti degli uffici dei parlamentari pari a 150 mila euro al giorno, 8 mila euro al mese a parlamentare. Quale ufficio (per un singolo parlamentare, tra l’altro) può ragionevolmente costare 8.000 euro al mese (al netto delle spese di segreteria che valgono altri 4.000 euro al mese per parlamentare, pagate a parte)? Cosa deve avere, per potere costare tanto? Maniglie d’oro? Tappeti persiani sul pavimento? Servitori in livrea? A fronte di quale tipo di attività di interesse collettivo (e si vedano nel post precedente le considerazioni sulla produttività e sull’efficacia dell’azione legislativa dei nostri parlamentari)? Cos’altro si potrebbe fare con quelle stesse risorse sperperate in spregio totale della precarietà economica strutturale in cui vivono ormai quotidianamente milioni di italiani? Peraltro, se lo Stato avesse acquisito direttamente gli immobili che affitta per gli uffici dei parlamentari, risparmierebbe in modo consistente, ma naturalmente, in questo caso, e solo in questo caso, spendere il doppio o il triplo di quel che si potrebbe non è un problema. Le risorse, per questo, ci sono. Bene, è questo qui, lo Stato che ci dice che i soldi per la cultura (e per tante altre cose) non ci sono e che bisogna tagliare, sempre e comunque, non importa di quale progetto o attività culturale si parli. Sono quelle stesse istituzioni che per sé stesse riescono ad assorbire risorse al di là di ogni ragionevolezza, al di là di ogni criterio di mercato. Quelle istituzioni che quando parlano di tagli, di sacrifici, di contorte quanto improbabili razionalizzazioni della spesa pubblica aggiungono sempre una postilla muta ma eloquente: “esclusi i presenti”. Ed è questo inverecondo spettacolo di irresponsabilità istituzionale il perfetto rispecchiamento di quel clima di stagnazione, di mancanza assoluta di coraggio e di prospettive, che confina l'Italia in un umiliante ruolo da osservatore inebetito mentre altri rievocano con entusiasmo la sua stessa identità culturale passata, ne prendono in mano il testimone, danno ad essa nuova vita e nuovo significato. Quell'Italia inebetita, per parte sua, considera la propria cultura soltanto un peso inutile da tagliare. Ancora pochi anni e questo processo di disfacimento diverrà praticamente irreversibile. Bisogna fare qualcosa. Non si può essere complici di questo scempio, nemmeno involontariamente. Non ci può essere alcuna scusante, alcuna invocazione di buona fede. Si può soltanto decidere da che parte stare, e agire di conseguenza.

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