giovedì 9 settembre 2010

Un paese del terzo mondo

Il grande economista Amartya Sen, premio Nobel per l'economia 1998, è uno dei più profondi conoscitori dei meccanismi che producono la povertà in tutte le sue forme. In particolare, Sen è l'iniziatore del cosiddetto capability approach, secondo cui le cause fondamentali della povertà non vanno cercate tanto nella mancanza di risorse in sé, quanto piuttosto nella mancanza di quelle capacità che permettono alle persone di fare le proprie scelte su questioni vitali nella piena consapevolezza delle conseguenze che tali scelte producono, soprattutto in termini di ben-essere personale e collettivo. Ad esempio, il basso livello di attenzione alle norme igieniche nei contesti più poveri (con tutte le prevedibili conseguenze in termini di diffusione delle malattie e di mortalità) si deve al fatto che una delle capacità fondamentali di cui i più poveri sono privi è proprio la comprensione del ruolo fondamentale che l'igiene ha nel determinare lo stato di salute, la durata e la qualità della vita propria e dei propri figli. Per cui, anche nel caso di un aumento del reddito, una famiglia povera potrebbe non migliorare il proprio livello di salute: ad esempio, se le continue malattie dei propri bambini dovute alla scarsa igiene vengono attribuite ad un malocchio e quindi il denaro aggiuntivo disponibile viene speso per commissionare allo sciamano rituali sempre più costosi, probabilmente le cose non miglioreranno.

Sarebbe facile (e consolatorio) pensare che i problemi di deficit di capacità riguardino soltanto i paesi a basso livello di sviluppo socio-economico. Purtroppo non è così: anche in contesti socio-economicamente avanzati si possono produrre deficit di capacità dalle conseguenze tragiche. Un esempio evidente in questo senso è il processo di progressiva e sistematica svalutazione sociale della conoscenza che si sta verificando nell'Italia di questi anni. In controtendenza non soltanto rispetto a tutti gli altri paesi più avanzati, ma anche alla maggior parte dei paesi socio-economicamente emergenti, in Italia si sta diffondendo, in modo sempre più evidente, l'idea che la conoscenza non abbia un reale valore sociale e che se ne possa tutto sommato fare a meno: un tipico atteggiamento rivelatore di un deficit di capacità particolarmente grave per un paese che, in quanto socio-economicamente avanzato, ha come unica prospettiva di futuro quella di diventare più competitivo nei processi di creazione di valore economico ad alta intensità di conoscenza.

Qualcuno potrebbe dire che questa diagnosi è esagerata, e anzi addirittura pericolosamente catastrofista. In Italia ci sono tante eccellenze che tutti ci invidiano ecc. ecc. Sarà, ma in un paese che non presenta un deficit di capacità quanto alla valorizzazione sociale della conoscenza, i dati diffusi oggi da QS, la società di consulenza specializzata che elabora ogni anno per il Times Higher Education Supplement la classifica dei migliori atenei del mondo, avrebbero dovuto suscitare una reazione ben maggiore dei soliti articoletti di taglio basso dedicati all'argomento, nel migliore dei casi, dai nostri maggiori quotidiani. In particolare, non avrebbero mai potuto essere totalmente ignorati dall'agenda politica, che come sappiamo in questi giorni è interamente dedicata ad altro. Non diversamente da quanto accadrebbe in un paese del terzo mondo, se i dati mostrassero che in quel paese la mortalità infantile è tripla rispetto a quella di altri paesi con un simile livello di sviluppo socio-economico. I politici locali scrollerebbero le spalle, direbbero che da loro è sempre stato così, e si passerebbe a qualcosa di più interessante, tipo: di che colore deve vestirsi l'esercito, quante mogli può avere il capo dello stato, cose così.

Ma cosa dicono, in ultima analisi, questi dati? E soprattutto, dicono qualcosa di diverso dai dati dell'anno prima? In sostanza no, le cose stanno come prima, cioè malissimo per le università italiane (e vedremo tra poco in che senso). Ma il fatto che la situazione delle università italiane nel contesto mondiale sia costantemente tragica non è un buona ragione per ignorare il problema, soprattutto quando c'è una riforma dell'università in dirittura d'arrivo (e probabilmente bloccata dal possibile ritorno alle urne nell'immediato futuro).

Il ranking di QS valuta le prime 500 università del mondo secondo un insieme molto ricco e articolato di parametri, che comprendono la produttività scientifica ma anche la qualità delle condizioni lavorative e di studio, l'internazionalità del corpo docente e di quello studentesco, eccetera. Nel complesso, si tratta di una valutazione che fornisce una stima affidabile della qualità di una istituzione universitaria, e infatti la pubblicazione dei risultati è molto seguita e molto seriamente considerata a livello internazionale. Ad oggi, per il 2010 è disponibile soltanto la lista delle prime 200 università - quella completa delle prime 500 sarà disponibile la prossima settimana - ma i dati appena pubblicati sono già sufficienti per operare delle valutazioni interessanti e affidabili. Ad ogni università, QS assegna un punteggio che pesa i vari criteri su cui si basa la valutazione. Fatto pari a 100 il punteggio del migliore, che quest'anno è l'università di Cambridge, che ha così messo in discussione lo storico predominio di Harvard, tutte le altre università sono valutate con un punteggio relativo, per cui l'effettiva gerarchia dei valori può essere misurata non soltanto dall'ordine in classifica, ma dalla effettiva distanza del punteggio di ciascuna università da quello della migliore. Sommando poi i punteggi delle università in classifica per nazione, si può ottenere una prima valutazione del 'potenziale' di ciascun paese in termini della qualità relativa delle proprie università di eccellenza.

Come si colloca l'Italia nel quadro internazionale? Tra le prime 200 ci sono soltanto due università italiane (Bologna e Roma La Sapienza), tutte e due in posizioni piuttosto basse di classifica. Senza fare confronti con le nazioni al vertice (USA e Regno Unito), le precedono sette università svizzere, nove canadesi, dieci olandesi (!!), otto australiane, nove giapponesi, quattro coreane, dodici tra Cina, Hong Kong e Singapore, quattro francesi, quattro svedesi, tre danesi, due irlandesi, due neozelandesi, due belghe, tre israeliane, due norvegesi, due spagnole, una austriaca, una russa, una taiwanese, una sudafricana (!!). Nel complesso, portando a 1000 la somma del potenziale complessivo della nazione più forte, gli USA naturalmente, ecco qual è il ranking dei vari paesi in termini di distanza relativa:




L'Italia è ventiquattresima. Ventiquattresima. Il che vuol dire che non soltanto non siamo nel G7 della qualità della produzione della conoscenza, ma non siamo nemmeno nel G20, in cui troviamo paesi come l'Irlanda, la Nuova Zelanda, la Danimarca, la Corea, e in cui c'è un paese come l'Olanda che siede al quarto posto assoluto. Fatto 1000 il potenziale degli USA, il nostro è 26,8. Il due e mezzo per cento. Se poi confrontiamo il nostro potenziale con quello degli altri paesi G7, è più che evidente che apparteniamo ad una categoria diversa, che non ha nulla a che fare con quella degli altri. Il paese più indietro nel gruppo oltre noi, la Francia, ha un potenziale più che triplo rispetto al nostro:


Alla luce di questi dati, se l'Italia non avesse un problema di capabilities, ci troveremmo di fronte ad una emergenza nazionale, ad una possibile mobilitazione generale. La riforma che sarebbe in via di approvazione fa ben poco per cambiare questa situazione. Nel migliore dei casi, ad esempio, introduce dei modesti incentivi monetari per chi fa buona ricerca, o dà qualche fondo in più; spiccioli, nel clima di tagli generalizzati che colpisce la formazione e la ricerca in Italia oggi. Ma tutti i nodi veri, quelli che scavano un fossato sempre più ampio tra noi e il mondo universitario globale che funziona secondo standard internazionali condivisi, restano intatti. Il processo di reclutamento dei docenti rimane ancora cervellotico, lungo e imprevedibile negli esiti (dopo mesi se non anni di concorso, se l'ateneo ha bisogno di uno specialista del campo X, può ritrovarsi uno specialista del campo Y di cui non sa bene che farsi) e improponibile per un ricercatore straniero di livello, che avrà modo di sistemarsi meglio e più rapidamente altrove. I docenti che non fanno ricerca da anni (e magari non l'hanno mai fatta) sono inamovibili e spesso impegnano una quantità di risorse tale da rendere impossibile assumere ricercatori giovani, per non parlare dei fondi che sottraggono a chi la ricerca potrebbe e vorrebbe farla, per cui l'unica speranza è aspettare che vadano in pensione (e naturalmente molti di loro fanno di tutto per andarci il più tardi possibile). La qualità della didattica e i giudizi degli studenti non hanno influenza alcuna sulla remunerazione dei docenti né sul loro status. Non è un caso allora che alcune delle nostre università che nelle classifiche parziali per aree ottengono buoni risultati, come la Bocconi nelle scienze sociali o il Politecnico di Milano nell'ingegneria, stiano di fatto approntando soluzioni che almeno in parte aggirano le insostenibili rigidezze del sistema italiano. Ma questo stato di cose, a quanto pare, non si può cambiare in modo sostanziale, perché essenzialmente per fare ciò l'università dovrebbe autoriformarsi, visto che in Italia la difesa degli interessi pregressi, giusti o sbagliati che siano, è sempre e comunque garantita (a danno di chi ha avuto la sfortuna di nascere troppo tardi rispetto agli anni d'oro in cui c'erano praterie da occupare e presidiare). E vi pare che possa autoriformarsi una università in cui, spesso e volentieri, chi ha i numeri per far pendere la bilancia da un lato o dall'altro sono proprio coloro che avrebbero molto o moltissimo da perdere da una vera trasformazione dell'università italiana? Anche altri paesi, come ad esempio la Germania, hanno avuto per anni un sistema universitario isolazionista rispetto al resto del mondo e molto rigido e controllato da interessi corporativi. Ma la Germania ha avuto il coraggio di cambiare con decisione, e ha oggi dodici università tra le prime duecento.

In un contesto del genere, è già un miracolo, direbbe qualcuno, che ci possa essere qualche università italiana tra le prime duecento, o qualche università nelle prime cento nei singoli settori, quindi rallegriamoci. Noi italiani, direbbe sempre quel qualcuno, siamo così: otteniamo tanto con poco. Quante volte ho sentito dire, sento ancora dire queste stupidaggini offensive, per chi le dice e per chi le ascolta. Ma tanto comode per chi ha interesse a mantenere le cose come sono, e per i decisori pubblici che non cercano altro che una buona battuta con cui liquidare queste seccature quando proprio devono dire qualche frase di circostanza. Quei decisori che magari neanche l'hanno fatta, l'università, e a cui comunque queste cose non interessano, perché interessa altro, perché queste cose non le capiscono, non li appassionano, non li divertono. Non possiamo nemmeno più dire che, andando avanti così, diventeremo un paese del terzo mondo. Dal punto di vista universitario, lo siamo già, un paese del terzo mondo.

1 commento:

  1. Mi chiedo: ma questi grani di sale, non pochi, che hanno coscienza chiara della situazione del paese (e visione di quel che comporterà) perchè restano così isolati, perchè non riescono ad aggregarsi ed a smuovere il paese. Perchè sempre questa solitutine?

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