Secondo la Corte dei Conti (p. 237), il costo annuale della corruzione nella pubblica amministrazione in Italia ammonta a circa 50-60 miliardi di euro annui (nella sua relazione il Procuratore Generale Pasqualucci parla di "tassa immorale ed occulta pagata con i soldi prelevati dalle tasche dei cittadini").
Secondo le stime annuali del Sole 24 Ore, il mancato gettito fiscale derivante dall'economia sommersa ammonta ad un valore compreso tra i 104 e i 118 miliardi di euro.
Anche senza considerare tanti altri fattori rilevantissimi di costo sociale quali la criminalità organizzata, la lentezza della giustizia o la cattiva sanità, la corruzione e l'economia sommersa da sole costano al nostro paese, cioè a noi, più di 150 miliardi di euro l'anno. Circa 6 volte la maxi-stangata fiscale di quest'anno. Pensateci per un attimo: 6 maxi-stangate l'anno, tutti gli anni. Una ogni due mesi. Stangate i cui proventi non vengono nemmeno incassati dalla collettività, ma rappresentano un vero e proprio trasferimento dai cittadini onesti a quelli disonesti. E peraltro, anche le tasse che vengono pagate e incassate dall'erario vengono utilizzate in modo piuttosto inefficiente visto che drenano più risorse che in quasi tutti gli altri paesi europei, restituendo meno servizi sociali. Forse abbiamo qualche indizio per capire come mai i nostri livelli di benessere stanno lentamente ma inesorabilmente scivolando indietro rispetto a quelli degli altri paesi ad alto livello di sviluppo socio-economico.
Che cosa sarebbe oggi l'Italia se queste stesse risorse avessimo potuto investirle ogni anno nel sistema formativo, nei servizi pubblici, nelle infrastrutture, nella solidarietà sociale? Non occorre molta immaginazione per capirlo. Ma c'è un problema: se non cambiano i meccanismi di controllo sociale che consentono di prevenire la corruzione e l'evasione, anche un eventuale recupero di risorse aggiuntive da spendere su obiettivi di interesse collettivo non si trasformerebbe necessariamente in maggior valore economico e sociale, e finirebbe in gran parte per ritornare in tasche sbagliate sotto altra forma. Finché il sentire comune resta quello che è, il nostro resta un paese nel quale la disonestà è eccezionalmente premiata a livello sociale, e quindi si diffonde attraverso un ovvio e prevedibile meccanismo di evoluzione culturale, incoraggiando i comportamenti disonesti che si diffondono così per emulazione, ed espellendo tutti coloro che non vogliono agire disonestamente e possono rifugiarsi in altri contesti nei quali l'onestà è premiata di più (o è penalizzata meno). E' un classico processo di selezione avversa a livello sistemico.
Supponiamo, ed è tutt'altro che improbabile, che l'Italia vada avanti così per altri dieci anni, aggrappata ai deliri autoreferenziali di una classe politica priva di credibilità ma inamovibile, che pensa che l'agenda politica del paese reale coincida con le proprie agende personali e che è in grado di creare le condizioni affinché questa propria aspettativa si auto-realizzi, destituendo la vita democratica di qualunque dimensione partecipativa effettiva. Supponiamo cioè che si vada avanti giorno per giorno per altri dieci anni 'tirando a campare', senza farsi nessuna domanda sul futuro, senza toccare gli interessi consolidati, di qualunque natura essi siano, e mantenendo quindi di conseguenza gli stessi livelli di evasione e di corruzione. Che paese sarebbe? Come ci si vivrebbe? Come si collocherebbe nello scenario socio-economico internazionale? Secondo me, molti italiani pensano ancora in cuor loro che l'Italia se la cava e se la caverà comunque, un po' come nella sigla di un vecchio varietà del sabato sera cantata da Enrico Montesano (Buon appetito all'Italia che va): "e se qualcuno dice che non mangia, non preoccuparti che anche lui s'arrangia...".
Il problema è che mentre noi stiamo fermi e cerchiamo di vivacchiare, c'è chi si muove. La competizione globale di questi anni è un tapis roulant, e anche veloce: stare fermi vuol dire trovarsi a gambe all'aria in men che non si dica. Nello scenario attuale, il ruolo della politica è essenzialmente quello di costruire e proporre percorsi credibili di sviluppo a medio-lungo termine. E quindi, chiunque si interroghi seriamente sul futuro di un paese delle dimensioni e dell'importanza dell'Italia che naviga a vista senza senza alcun piano, e senza che nessuno si ponga il problema, non potrà che dedurne che ci troviamo di fronte ad una situazione da allarme rosso. E perché allora, con qualche sparuta eccezione come quella offerta dalle considerazioni finali del Governatore della Banca d'Italia, nessuno ne parla? Personalmente, sono convinto che in realtà in Italia siano in molti a preoccuparsi di questo vuoto pericolosissimo di visione, di idee, di proposte. Ma perché nessuno sembra interessato a colmarlo, questo vuoto?
Forse, nel più classico stile italico, stiamo facendo come facciamo sempre. Il metodo ormai lo conosciamo bene: scegliamo la strada più comoda e poi si vedrà. Lasciamo costruire sulle falde di un vulcano attivo o nel letto di un fiume perché comunque il problema quotidiano va risolto, e 'poi' ci si penserà. Intanto si è dato un tetto a tante famiglie (e vai con Montesano: "buon appetito da Leuca a Cantù, da su a giù, da giù a su..."). Quando il 'poi' arriva, quando cioè si verifica il prevedibile evento catastrofico, ci chiediamo come mai si è costruito lì, andiamo in cerca di responsabili di comodo e ci mettiamo a discutere di possibili soluzioni. Abbiamo bisogno di una catarsi, dunque? No, neanche questo è vero: quando arriva la catastrofe non c'è niente di meglio, dalle nostre parti, per creare nuove corsie preferenziali di trasferimenti non trasparenti di risorse in base alla logica dell'emergenza, e quindi per rafforzare la selezione avversa che ci sta strangolando. L'Italia ha una scarsa propensione alla catarsi: la tragedia è solo una nuova fonte di opportunità per fare di più e meglio quel che si faceva prima. La storia non dà lezioni, la storia va rimossa, il prima possibile.
E allora? Provare a far rinascere dal basso una cultura politica partecipativa? E' una strada lunga e difficile, in un paese così avvelenato dalla degenerazione del civismo politico. Ma ci sono reali alternative praticabili per uscire dal pantano?
Che fare?
Anche senza considerare tanti altri fattori rilevantissimi di costo sociale quali la criminalità organizzata, la lentezza della giustizia o la cattiva sanità, la corruzione e l'economia sommersa da sole costano al nostro paese, cioè a noi, più di 150 miliardi di euro l'anno. Circa 6 volte la maxi-stangata fiscale di quest'anno. Pensateci per un attimo: 6 maxi-stangate l'anno, tutti gli anni. Una ogni due mesi. Stangate i cui proventi non vengono nemmeno incassati dalla collettività, ma rappresentano un vero e proprio trasferimento dai cittadini onesti a quelli disonesti. E peraltro, anche le tasse che vengono pagate e incassate dall'erario vengono utilizzate in modo piuttosto inefficiente visto che drenano più risorse che in quasi tutti gli altri paesi europei, restituendo meno servizi sociali. Forse abbiamo qualche indizio per capire come mai i nostri livelli di benessere stanno lentamente ma inesorabilmente scivolando indietro rispetto a quelli degli altri paesi ad alto livello di sviluppo socio-economico.
Che cosa sarebbe oggi l'Italia se queste stesse risorse avessimo potuto investirle ogni anno nel sistema formativo, nei servizi pubblici, nelle infrastrutture, nella solidarietà sociale? Non occorre molta immaginazione per capirlo. Ma c'è un problema: se non cambiano i meccanismi di controllo sociale che consentono di prevenire la corruzione e l'evasione, anche un eventuale recupero di risorse aggiuntive da spendere su obiettivi di interesse collettivo non si trasformerebbe necessariamente in maggior valore economico e sociale, e finirebbe in gran parte per ritornare in tasche sbagliate sotto altra forma. Finché il sentire comune resta quello che è, il nostro resta un paese nel quale la disonestà è eccezionalmente premiata a livello sociale, e quindi si diffonde attraverso un ovvio e prevedibile meccanismo di evoluzione culturale, incoraggiando i comportamenti disonesti che si diffondono così per emulazione, ed espellendo tutti coloro che non vogliono agire disonestamente e possono rifugiarsi in altri contesti nei quali l'onestà è premiata di più (o è penalizzata meno). E' un classico processo di selezione avversa a livello sistemico.
Supponiamo, ed è tutt'altro che improbabile, che l'Italia vada avanti così per altri dieci anni, aggrappata ai deliri autoreferenziali di una classe politica priva di credibilità ma inamovibile, che pensa che l'agenda politica del paese reale coincida con le proprie agende personali e che è in grado di creare le condizioni affinché questa propria aspettativa si auto-realizzi, destituendo la vita democratica di qualunque dimensione partecipativa effettiva. Supponiamo cioè che si vada avanti giorno per giorno per altri dieci anni 'tirando a campare', senza farsi nessuna domanda sul futuro, senza toccare gli interessi consolidati, di qualunque natura essi siano, e mantenendo quindi di conseguenza gli stessi livelli di evasione e di corruzione. Che paese sarebbe? Come ci si vivrebbe? Come si collocherebbe nello scenario socio-economico internazionale? Secondo me, molti italiani pensano ancora in cuor loro che l'Italia se la cava e se la caverà comunque, un po' come nella sigla di un vecchio varietà del sabato sera cantata da Enrico Montesano (Buon appetito all'Italia che va): "e se qualcuno dice che non mangia, non preoccuparti che anche lui s'arrangia...".
Il problema è che mentre noi stiamo fermi e cerchiamo di vivacchiare, c'è chi si muove. La competizione globale di questi anni è un tapis roulant, e anche veloce: stare fermi vuol dire trovarsi a gambe all'aria in men che non si dica. Nello scenario attuale, il ruolo della politica è essenzialmente quello di costruire e proporre percorsi credibili di sviluppo a medio-lungo termine. E quindi, chiunque si interroghi seriamente sul futuro di un paese delle dimensioni e dell'importanza dell'Italia che naviga a vista senza senza alcun piano, e senza che nessuno si ponga il problema, non potrà che dedurne che ci troviamo di fronte ad una situazione da allarme rosso. E perché allora, con qualche sparuta eccezione come quella offerta dalle considerazioni finali del Governatore della Banca d'Italia, nessuno ne parla? Personalmente, sono convinto che in realtà in Italia siano in molti a preoccuparsi di questo vuoto pericolosissimo di visione, di idee, di proposte. Ma perché nessuno sembra interessato a colmarlo, questo vuoto?
Forse, nel più classico stile italico, stiamo facendo come facciamo sempre. Il metodo ormai lo conosciamo bene: scegliamo la strada più comoda e poi si vedrà. Lasciamo costruire sulle falde di un vulcano attivo o nel letto di un fiume perché comunque il problema quotidiano va risolto, e 'poi' ci si penserà. Intanto si è dato un tetto a tante famiglie (e vai con Montesano: "buon appetito da Leuca a Cantù, da su a giù, da giù a su..."). Quando il 'poi' arriva, quando cioè si verifica il prevedibile evento catastrofico, ci chiediamo come mai si è costruito lì, andiamo in cerca di responsabili di comodo e ci mettiamo a discutere di possibili soluzioni. Abbiamo bisogno di una catarsi, dunque? No, neanche questo è vero: quando arriva la catastrofe non c'è niente di meglio, dalle nostre parti, per creare nuove corsie preferenziali di trasferimenti non trasparenti di risorse in base alla logica dell'emergenza, e quindi per rafforzare la selezione avversa che ci sta strangolando. L'Italia ha una scarsa propensione alla catarsi: la tragedia è solo una nuova fonte di opportunità per fare di più e meglio quel che si faceva prima. La storia non dà lezioni, la storia va rimossa, il prima possibile.
E allora? Provare a far rinascere dal basso una cultura politica partecipativa? E' una strada lunga e difficile, in un paese così avvelenato dalla degenerazione del civismo politico. Ma ci sono reali alternative praticabili per uscire dal pantano?
Che fare?
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