lunedì 16 agosto 2010

Dieci anni sprecati (che non torneranno più...)

In questi giorni, Forbes ha pubblicato la lista dei 50 marchi globali di maggior valore. I nostri media hanno più o meno tutti commentato che non ce n'è nemmeno uno italiano (c'è Gucci, al 50mo posto, ma da anni è di proprietà francese), e tutto è finito lì. Nessuna particolare reazione dagli addetti ai lavori o dall'opinione pubblica. Abbiamo altro a cui pensare, come ci viene detto con una certa insistenza. E invece è un dato su cui varrebbe di fare una riflessione più approfondita. Prima di tutto, guardando con più attenzione i dati, si nota che l'Italia è l'unico paese del G7 a non avere nemmeno un marchio globale tra i primi 50. Inoltre, emergono altrettanto chiaramente alcune tendenze aggregate per paese: gli USA sono i dominatori assoluti, con 33 marchi su 50, distribuiti in uno spettro molto ampio di settori produttivi. Il Giappone ha 4 marchi, la Germania e la Francia 3 ciascuno, il Regno Unito e la Svezia 2. I profili sono molto diversificati: se Giappone e Germania sono focalizzati su automobilistico e software (con l'aggiunta dell'elettronica per il Giappone), la Francia è concentrata sulla moda e sulla cosmetica, il Regno Unito si divide tra telecom e banche. La Svezia ha ben due marchi legati al design: arredamento e moda low-cost. Ci sono la Svizzera col caffè, la Corea con l'elettronica, la Finlandia e il Canada con l'hardware. In alcuni di questi settori (il cibo e la moda, quantomeno), ci si sarebbe aspettati di trovare l'Italia. Si potrebbe commentare che la nostra assenza è dovuta in ultima analisi al fatto che il tessuto produttivo italiano è fatto soprattutto di piccole e medie imprese, che le cose in fondo sono andate sempre così, che il made in Italy non ha bisogno di grandi marchi globali. Ma è vero? Ci sono motivi per dubitarne. I marchi globali sono importanti perché rendono visibile l'intero sistema produttivo di un paese: basta pensare a cosa hanno fatto marchi come Ikea o Nokia per paesi come la Svezia e la Finlandia, ma per rimanere su paesi con noi più confrontabili, il fatto che la Francia abbia marchi globali come Vuitton o L'Oreal (e che abbia finito per acquisire anche il nostro marchio più visibile globalmente, Gucci, il cui gruppo ha in portafoglio altri marchi di prestigio come Bottega Veneta e Sergio Rossi) mentre l'Italia non ne ha, produce una identificazione molto maggiore per i nostri cugini transalpini con i territori della moda e del lusso, soprattutto nei confronti dei consumatori dei nuovi mercati emergenti: una differenza di massa critica che potrebbe far sì che il divario possa ulteriormente aumentare in futuro.

Un'altra obiezione che si potrebbe avanzare è che una lista di 50 marchi è troppo breve: se ce ne fossero 100, troveremmo dei marchi italiani. E' possibile verificarlo? Certamente sì: da molti anni Interbrand pubblica una classifica annuale dei 100 marchi di maggior valore simile a quella di Forbes. Qualche differenza c'è (in fondo la valutazione di un marchio è una operazione complessa che non esclude qualche elemento di arbitrarietà di giudizio) ma nella sostanza i risultati complessivi sono simili. E sì, in questo caso ci sono tre marchi italiani: Prada, Ferrari ed Armani, nelle parti basse del ranking (tutti sotto la 85ma posizione). Un motivo per consolarsi dunque? Se si analizzano i dati, non tanto. Perché? Proviamo a ragionare in questo modo: dividendo il valore complessivo dei marchi globali di un paese per il suo PIL (e moltiplicando per un opportuno fattore di scala per rendere le cifre più leggibili, in questo caso 1.000.000) otteniamo una sorta di indice che ci dice più o meno quanta della capacità di produrre valore da parte di un paese si traduce in marchi globali. Effettuando questa operazione per tutti i paesi che hanno marchi tra i primi 100, viene fuori questa figura (BV=brand value; GDP=PIL, elaborazione nostra):



Nel caso della Finlandia, Nokia, che è uno dei marchi di maggior valore assoluto, ha un peso notevolissimo (in termini relativi) sul PIL complessivo, ed è in effetti eccezionale che un paese economicamente tanto piccolo sia riuscito a produrre un marchio globale di questo livello. Seguono poi due paesi economicamente piccoli ma altrettanto agguerriti (e peraltro diversificati su più marchi) come Svizzera e Svezia, e gli USA che rappresentano decisamente un caso a sé: pur con la loro dimensione economica, riescono ad avere una incidenza di marchi globali superiore a quella di tutte le altre grandi economie. Seguono poi, a livelli intermedi, le due economie europee 'renane' (Germania e Francia) e la Corea del Sud, che può far valere gli ottimi risultati nell'elettronica e nell'automobilistico. Poi, in una categoria ancora inferiore, due economie di primo piano come il Giappone e il Regno Unito, il Canada e i Paesi Bassi. Infine, l'Italia e la Spagna, che rappresentano le due economie con minore capacità di trasferire il valore nei marchi globali. Quindi non è semplicemente una questione di numero di marchi: una nostra diretta concorrente sui mercati strategici dal punto di vista dei marchi globali come la Francia ha una visibilità molto superiore alla nostra. Ma è stato sempre così?

La risposta è: no. Se andiamo a riprendere i dati pubblicati da Interbrand per un anno di grande euforia finanziaria come il 2006, e se risaliamo ancora fino all'inizio del decennio, in particolare al 2001, e confrontiamo i valori del nostro indice nelle varie epoche, troviamo un andamento piuttosto interessante (elaborazione nostra):



Rispetto al 2001, il peso relativo dei marchi globali negli USA è diminuito nel tempo, perché è aumentata la concorrenza degli altri paesi (nel 2001 erano americani ben 62 marchi globali su 100, nel 2009 'soltanto' 51), e anche un paese come la Finlandia ha visto diminuire il peso relativo del suo unico grande marchio grazie alla crescita del resto dell'economia. La Svizzera ha avuto una impennata del peso dei grandi marchi nel 2006, cioè in piena euforia dei mercati finanziari, ed è comprensibile poiché alcuni dei suoi marchi più importanti sono legati al lusso. La Svezia, viceversa, ha avuto un andamento opposto: da un lato perché al contrario i suoi marchi sono legati al low-cost, dall'altro perché si è avuto un importante cambiamento strutturale: è sparito dalla classifica un grande marchio legato all'elettronica come Ericsson mentre aumenta in modo sensibile il valore di Ikea (ma anche di H&M). I casi della Finlandia e del Canada (che nel 2009 ha in classifica Blackberry e un grande gruppo editoriale come Thompson Reuters) mostrano poi chiaramente quali sono le opportunità che si aprono per i paesi che investono con decisione sui temi dell'economia della conoscenza e dell'innovazione.

Ma il dato più interessante per noi è quello dei paesi con noi meglio confrontabili: Francia, Germania, Regno Unito. Si vede molto chiaramente che nel 2001 la situazione dei grandi paesi industriali europei non era poi così diversa: a parte la Germania, che ha mantenuto costante nel tempo un valore alto dell'indice dovuto alla solidità dei suoi marchi (che non a caso crescono di valore più o meno col ritmo di crescita dell'intera economia tedesca) i valori per gli altri tre paesi erano relativamente vicini all'inizio del decennio (dal circa 12 del Regno Unito al circa 10 della Francia al circa 7 dell'Italia). Ma nel 2006, la situazione cambia: mentre Germania e Regno Unito mantengono le loro posizioni, l'indice francese schizza dal 10 al 24 circa: più che un raddoppio, mentre quello italiano crolla dal 7 al 4 e mezzo circa. Anche un paese un tempo emergente come la Corea del Sud segue lo stesso andamento della Francia, operando un grande salto di visibilità sul mercato globale.

In altre parole, negli anni in cui la competizione sul mercato globale ha cominciato a farsi agguerrita (in particolare, i primi anni del nuovo secolo), la nostra più diretta concorrente è riuscita a concentrare le proprie energie competitive verso il consolidamento globale dei propri marchi di punta, mentre noi, al contrario, abbiamo perso capacità in questo senso. Addirittura, il nostro concorrente diretto ha acquisito il nostro marchio migliore nel settore di maggiore visibilità (la moda). La nostra capacità di produrre marchi globali è attualmente pari, in proporzione, a quella spagnola, con due differenze: primo, che i nostri marchi attualmente in classifica hanno poco potenziale di crescita ulteriore rispetto alla situazione attuale (Armani, Prada, Ferrari) mentre il marchio spagnolo (Zara) presenta ancora margini potenziali di crescita notevoli; secondo, che il nostro potenziale attuale lo abbiamo raggiunto con un andamento discendente, mentre la Spagna solo tre anni prima non aveva (e non aveva mai avuto) marchi globali. Bisognerà inoltre tenere conto del fatto che economie emergenti come la Cina, l'India e il Brasile, tanto per fare gli esempi più ovvi, non hanno ancora marchi globali ma è evidentemente solo questione di tempo, quindi la competizione futura sarà ancora più dura e selettiva.

Abbiamo perso una occasione cruciale, quella che ci veniva offerta da un periodo in cui i mercati globali lasciavano ancora aperte molte opportunità e c'erano le risorse e le possibilità per una strategia lucida ed efficace di potenziamento del nostro made in Italy. Li abbiamo, evidentemente, sprecati (erano gli anni in cui eravamo impegnati ad incubare l'Italia in cui viviamo oggi, avevamo altro a cui pensare), a differenza di quanto hanno fatto i nostri cugini transalpini. Oggi, la situazione è cambiata, e con tutta probabilità sarà difficile prendere un altro treno come quello: oggi, bisognerebbe saltare molto più in là di allora per ottenere lo stesso risultato. Siamo già usciti, come abbiamo visto, dalle classifiche più selettive dei marchi globali come quelle di Forbes. Ma di questo, a quanto pare, non importa a nessuno. I nostri giornali parlano d'altro, continuiamo ad avere ben altri problemi, noi. E poi, vuoi mettere il nostro made in Italy, che tutto il mondo ci invidia. La nostra magic Italy. Buona continuazione, e sogni d'oro.

1 commento:

  1. analisi perfetta di un paese con grandi capacità e risorse indirizzato verso declino oramai accettato da tutti, piuttosto che porre attenzione a strategie ed azioni per uno sviluppo futuro. E' che le azioni in questo senso costano, e nessuno ha più volgia di pagare questo costo, abituati ad attendere l'occasione che arrivava per tutti, e visto l'incertezza più assoluta che la politica riverbera nella società. In fin dei conti, perchè investire oggi per raccogliere domani, se non sai cosa succederà domani (e se non l'hai mai fatto pirma)? meglio vendere oggi e campare felici, e chi verrà dopo si arrangi. Per fortuna esistono territori e persone più sensibili, aziende e marchi medio piccolo ma di grande potenziale nelle rispettive nicchie di mercato. E chissà che almeno questi siano in grado di (e abbiano la voglia di) puntare su innovazione e sviluppo, incrociamo le dita.

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