Su Repubblica di oggi, Carlo Galli spiega quanto sia importante valutare la ricerca oggi: un tema di cui nella nostra università si parla tanto ma su cui si fa molto poco. Ora, dover ancora argomentare che una valutazione della ricerca sia necessaria nel 2010 è un po' come dover argomentare che le norme di igiene e profilassi sono utili alla salute pubblica. Il bisogno di convincere gli altri di ciò che altrove è ovvio è semplicemente un segnale di preoccupante sottosviluppo di sistema.
Nell'argomentazione di Galli, tuttavia, ritrovo alcuni tic tipicamente italiani che forse è il caso di superare una volta per tutte: ad esempio, il far presente che gli indici di misurazione della produttività scientifica generalmente adottati, come l'ormai ubiquitariamente diffuso impact factor, non siano privi di difetti. E' ovvio che abbiano dei difetti. Non credo che esista un indice che non ne ha. Ma ancora una volta, stare a disquisire, nell'Italia di oggi, con il nostro sistema della ricerca ridotto così, con le nostre università assenti da posizioni dignitose di qualunque ranking della qualità accademica internazionale, i pregi e i difetti dell'impact factor è come disquisire sui dettagli delle evidenze sperimentali pro e contro il trattamento standard in un paese messo in ginocchio da una grave malattia endemica - e nel frattempo, naturalmente, sospendere ogni intervento sanitario o mettersi a sperimentare per conto proprio nuovi, fantasiosi protocolli che nessun altro segue.
Galli sottolinea in particolare come l'impact factor tenda a privilegiare la ricerca più consolidata (mainstream) e come si tratti di un metodo di valutazione concepito essenzialmente per la ricerca nelle scienze quantitative. In realtà, ci sono tante riviste che fanno ricerca ben poco mainstream e che hanno impact factor molto alti per la loro disciplina, e ci sono discipline che magari potranno non essere adeguatamente valutabili sulla base di un criterio di impact factor, ma per le quali esistono, e spesso da decenni, ovvi criteri di qualità applicati largamente nel resto del mondo. Anche in una facoltà di Letteratura, tanto per fare un esempio, nella quale probabilmente ci saranno poche riviste dotate di impact factor, è possibile capire quale ricerca raggiunga certi standard e quale meno: tutti i dipartimenti che attuano politiche serie di valutazione classificano gli editori e le riviste in fasce qualitative, così che il numero e l'entità delle pubblicazioni di ciascun ricercatore in ciascuna fascia qualitativa permettono di esprimere giudizi di merito magari distorti secondo qualche criterio (quale giudizio non lo è, da almeno un punto di vista?) ma quanto meno motivati e motivabili. E comunque lo spettro delle discipline che stanno adottando sempre più abitualmente il criterio dell'impact factor tende ad allargarsi rapidamente, anche nelle scienze sociali: dall'economia alla sociologia, alla scienza politica, all'antropologia, alla psicologia sociale, tanto per fare qualche esempio.
A livello globale si sta verificando una rapida convergenza verso quello che potremmo definire il modello standard di promozione/valutazione dell'eccellenza della ricerca: quello che àncora il reclutamento alla libera scelta delle università, che se ne assumono tutte le responsabilità, che liberalizza le remunerazioni dei ricercatori e dei docenti sulla base della loro performance (didattica e) scientifica, e che lega il valore del titolo di studio ai giudizi di enti valutatori indipendenti (pubblici e privati: perché anche nel campo della valutazione è possibile una competizione e vi sono criteri riconosciuti di attendibilità ed autorevolezza). Noi, in Italia, possiamo naturalmente continuare a fare come abbiamo sempre fatto: seguire regole nostre, bizantine, capziose, indifferenti agli standard internazionali. E se in effetti risultassimo poi in cime alle classifiche di rendimento e di qualità potremmo non soltanto permettercelo, ma magari fare persino scuola. Ma siccome è vero il contrario, e siccome sediamo tristemente e anonimamente negli ultimi banchi, forse sarebbe il caso di capire che se la maggior parte degli altri, e praticamente tutti quelli che ottengono i risultati migliori, si regolano con criteri diversi, sarebbe magari meglio che ci dessimo una regolata anche noi. Altrimenti, andiamo pure avanti così. Basta solo un po' di sprezzo del ridicolo.
Nessun commento:
Posta un commento