Nel 1988, quando mi sono laureato, l'Italia, con tutti i suoi difetti e le sue contraddizioni, mi appariva ancora come un paese ricco di possibilità. Per questo decisi di restare, diversamente da molti dei miei compagni di corso di quegli anni. Oggi, le cose sono diverse. Ogni giorno, quando mi sveglio, devo cercare qualche buon motivo che giustifichi la scelta di restare ancora, malgrado tutto, malgrado lo sconforto che segue, ormai invariabilmente, la lettura mattutina dei quotidiani. E' solo perché oggi ho più esperienza e consapevolezza che le cose mi appaiono tanto diverse? O effettivamente quello in cui vivo oggi è un paese sostanzialmente diverso da quello di allora? Pur con tutto il disincanto che arriva con il passare degli anni, non posso fare a meno di pensare che una vera mutazione culturale ci sia stata.
E in estrema sintesi, la mutazione mi pare consista in questo: mentre alla fine degli anni ottanta l'Italia era un paese in cui, con tutte le contraddizioni e i ritardi che comunque ci distinguevano, esisteva ancora la convinzione diffusa che il sapere e le competenze fossero fattori decisivi di crescita economica e sociale, e che quindi ci fosse spazio, ci fossero opportunità per lavorare sulle idee e sui progetti di cambiamento, oggi questo sentire sembra completamente dissolto. Unico tra i grandi paesi industrializzati, l'Italia di oggi è diventato un paese in cui la formazione e la cultura vengono sentiti da tanti, da troppi come costi sociali, come spesa a fondo perduto da contenere quanto più possibile, e in cui la competenza, l'integrità intellettuale, la passione per le idee sono diventate pericolosi fattori di destabilizzazione da tenere sotto controllo, perché increspano lo stagno in cui prosperano e si riproducono le logiche familiari e familiste dell'appartenenza. Uno stato di cose particolarmente scioccante, visto dal di fuori, se riferito ad un paese che per alcuni decenni è stato un luogo imprescindibile della scena culturale globale e che oggi viene sempre più universalmente associato alla corruzione, al malaffare, alla volgarità. Siamo diventati una specie di paese alla rovescia swiftiano. Siamo persino al di là della satira, come conferma anche una superficiale rassegna stampa internazionale - che naturalmente scrive certe cose perché è invidiosa di noi (se una persona ragionasse così, si direbbe che è in piena negazione psicotica della realtà).
Sembra quasi che il nostro paese abbia deciso di suicidarsi: in un momento in cui è chiaro a tutti, ma proprio a tutti, persino agli ultimi arrivati, ai paesi emergenti dell'ultima ora, che il futuro dipende dal capitale di competenza, dalla capacità immaginativa, dalla visionarietà imprenditoriale che si è in grado di coltivare e di attirare a sé, e che quindi bisogna investire le proprie risorse di conseguenza, l'Italia di oggi sta facendo di tutto per andare nella direzione opposta, per auto-rappresentarsi come un paese decadente, centrato su modelli valoriali e comportamentali altrove improponibili e immerso in un delirio auto-referenziale di superiorità culturale legato a stereotipi ormai patetici nella loro totale, grottesca inattualità. E per completare l'opera, l'Italia di oggi sta facendo veramente di tutto per espellere i pochi superstiti che, a dispetto di ogni evidenza, credono che il nostro paese potrebbe tornare ad avere un posto su quella frontiera del pensiero e dell'apertura da cui si è allontanato tanto rapidamente e pericolosamente. Non è un caso che i temi della socio-economia della conoscenza di cui altrove tanto si discute e su cui spesso tanto si fa siano del tutto assenti, in modo rigorosamente bipartisan, dall'agenda politica dell'Italia di questi anni. E non c'è allora da meravigliarsi se nessuno abbia in questo momento da proporre al paese un progetto di sviluppo che possa offrire un quadro credibile e sensato di ciò che l'Italia potrebbe e dovrebbe essere da qui a dieci anni. Niente di strano, dunque se la nostra cronaca politica attuale attinga come unica materia prima a barzellette vecchie, motti di spirito di terz'ordine, luoghi comuni da avanspettacolo, astrusità senza senso.
Quando parlo con amici e conoscenti che hanno saltato il fosso e hanno scelto, magari dopo anni di frustrazioni di cui non di rado ho seguito personalmente lo stillicidio quotidiano, di andare a vivere e a lavorare all'estero, e che oggi mi raccontano (spesso, euforici) di quanto si viva bene e di quanto sia gratificante lavorare, finalmente, a Barcellona, a Parigi, a Londra, a Berlino, a Bruxelles, a Stoccolma (o in tanti altri posti che un tempo mi sarebbero sembrati decisamente improbabili), e di quanto la differenza sia evidente, palpabile, immediata, torno sempre a chiedermi per quanto sia ancora possibile continuare, qui, a nuotare controcorrente. E la risposta che mi do è ancora quella: è difficile, è sempre più difficile, ma forse, la corrente, un giorno cambierà. Mi illudo? Fino a quando?
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