Signore, vostra moglie, col pretesto di lavorare in un lupanare, vende merce di contrabbando.
Samuel Johnson, cit. in J.L. Borges, L'arte dell'insulto
Rari nantes
In my beginning is my end, in my end is my beginning
domenica 26 settembre 2010
sabato 25 settembre 2010
Parole sante #4
Only someone who's morally superior can possibly and honestly deserve to rule my world.
The Kings of Convenience, Rule my world
The Kings of Convenience, Rule my world
venerdì 24 settembre 2010
Esclusi i presenti
Due pezzi dalla cronaca recente, apparentemente distanti per tema e implicazioni, danno invece, opportunamente accostati, tutto il senso dello sfacelo in cui siamo precipitati. Su Repubblica, Carlo Petrini racconta la sua esperienza in un teatro di Seul in cui giovani universitari coreani mettono in scena con competenza e passione la Traviata verdiana, in un clima di eccitazione palpabile. Non è un caso: in Corea del Sud è in atto un vero e proprio boom culturale che fa di questo paese uno dei laboratori più interessanti a livello globale (le produzioni musicali e video coreane stanno letteralmente conquistando l’Asia) e una vera e propria land of opportunity per i giovani professionisti della cultura; e in futuro avremo modo di parlarne anche in questo blog. In Corea si preparano grandi celebrazioni per il bicentenario verdiano e in effetti il morbo operistico sta contagiando l’estremo oriente, che non a caso produce da anni (con sempre maggiore efficacia e successo) un numero crescente di cantanti e musicisti classici di alto livello. Quello che colpisce, se si approfondisce l’atteggiamento sociale verso i temi della produzione e dell’espressione culturale di questi paesi, è l’etica del lavoro e del sacrificio di ragazzi spesso giovanissimi ma già fortemente motivati (anche grazie ad un contesto sociale che attribuisce alla cultura una grande importanza e investe di conseguenza), il loro senso di responsabilizzazione, il loro travolgente entusiasmo. Da noi le celebrazioni verdine avverranno probabilmente in tono minore perché notoriamente non ci sono risorse per la cultura e bisogna tagliare, tagliare, anche le eccellenze riconosciute, anche i progetti più indiscutibilmente sensati e importanti (come denunciato ormai quasi quotidianamente dai nostri migliori musicisti e uomini di cultura). E poi, che cosa può importare agli italiani di oggi di Giuseppe Verdi? Almeno una volta, quando c’era la sua faccia sulle banconote da mille lire, qualche motivo di interesse c’era. Ma ora? Abbiamo l’euro, Verdi non ci serve più. E’ nato duecento anni fa? Pace all’anima sua.
E qui arriva il confronto con la seconda notizia: abbiamo già parlato in un recente post dei costi diretti (e delle devastanti conseguenze indirette) della politica italiana, ma non sapevamo (e ce ne informa Carmelo Lopapa sempre su Repubblica) che a quei livelli di indennità già senza paragoni in tutti gli altri paesi occidentali deve aggiungersi un costo giornaliero per gli affitti degli uffici dei parlamentari pari a 150 mila euro al giorno, 8 mila euro al mese a parlamentare. Quale ufficio (per un singolo parlamentare, tra l’altro) può ragionevolmente costare 8.000 euro al mese (al netto delle spese di segreteria che valgono altri 4.000 euro al mese per parlamentare, pagate a parte)? Cosa deve avere, per potere costare tanto? Maniglie d’oro? Tappeti persiani sul pavimento? Servitori in livrea? A fronte di quale tipo di attività di interesse collettivo (e si vedano nel post precedente le considerazioni sulla produttività e sull’efficacia dell’azione legislativa dei nostri parlamentari)? Cos’altro si potrebbe fare con quelle stesse risorse sperperate in spregio totale della precarietà economica strutturale in cui vivono ormai quotidianamente milioni di italiani? Peraltro, se lo Stato avesse acquisito direttamente gli immobili che affitta per gli uffici dei parlamentari, risparmierebbe in modo consistente, ma naturalmente, in questo caso, e solo in questo caso, spendere il doppio o il triplo di quel che si potrebbe non è un problema. Le risorse, per questo, ci sono. Bene, è questo qui, lo Stato che ci dice che i soldi per la cultura (e per tante altre cose) non ci sono e che bisogna tagliare, sempre e comunque, non importa di quale progetto o attività culturale si parli. Sono quelle stesse istituzioni che per sé stesse riescono ad assorbire risorse al di là di ogni ragionevolezza, al di là di ogni criterio di mercato. Quelle istituzioni che quando parlano di tagli, di sacrifici, di contorte quanto improbabili razionalizzazioni della spesa pubblica aggiungono sempre una postilla muta ma eloquente: “esclusi i presenti”. Ed è questo inverecondo spettacolo di irresponsabilità istituzionale il perfetto rispecchiamento di quel clima di stagnazione, di mancanza assoluta di coraggio e di prospettive, che confina l'Italia in un umiliante ruolo da osservatore inebetito mentre altri rievocano con entusiasmo la sua stessa identità culturale passata, ne prendono in mano il testimone, danno ad essa nuova vita e nuovo significato. Quell'Italia inebetita, per parte sua, considera la propria cultura soltanto un peso inutile da tagliare. Ancora pochi anni e questo processo di disfacimento diverrà praticamente irreversibile. Bisogna fare qualcosa. Non si può essere complici di questo scempio, nemmeno involontariamente. Non ci può essere alcuna scusante, alcuna invocazione di buona fede. Si può soltanto decidere da che parte stare, e agire di conseguenza.
Parole sante #3
...l'esperienza incomprensibile di un luogo, l'Italia, che è mortificazione di ogni impulso.
Giorgio Vasta, Spaesamento
Giorgio Vasta, Spaesamento
domenica 19 settembre 2010
Nel nostro interesse
Pensare che le persone possano essere motivate ad agire soltanto sulla base di incentivi monetari (premi e punizioni, oppure, se preferite le metafore, carota e bastone) è stupido, e se volete farvi un'idea del perché leggete questo. Ma se c'è una cosa ancora più stupida, è quella di utilizzare gli incentivi monetari senza tenere conto, per ignoranza o malafede, degli effetti più evidenti e prevedibili che essi indurranno sui comportamenti. La legislazione italiana, da questo punto di vista, è una miniera formidabile di esempi di leggi che stabiliscono schemi di incentivi che sembrano fatti apposta per produrre i comportamenti opposti a quelli che la legge stessa si prefigge di incoraggiare. Per cui non ci dovremmo stupire più di tanto se un esempio clamoroso di uso perverso degli incentivi monetari è rappresentato dalle remunerazioni dei nostri parlamentari.
Come mostra l'analisi presentata dal centro studi di Confindustria, l'indennità dei parlamentari in Italia è pari a circa cinque volte il PIL pro capite. Per farci un'idea, si può considerare che il rapporto indennità/PIL per l'Italia è il quadruplo di quello della Norvegia, il doppio di quello inglese, ed è superiore per più del 50% a quello americano - di fatto, non ha paragone con quanto accade in nessun altro paese economicamente avanzato:
Come mostra l'analisi presentata dal centro studi di Confindustria, l'indennità dei parlamentari in Italia è pari a circa cinque volte il PIL pro capite. Per farci un'idea, si può considerare che il rapporto indennità/PIL per l'Italia è il quadruplo di quello della Norvegia, il doppio di quello inglese, ed è superiore per più del 50% a quello americano - di fatto, non ha paragone con quanto accade in nessun altro paese economicamente avanzato:
Possiamo ritenere che questa situazione di assoluto privilegio dei parlamentari italiani sia una scelta deliberata che viene ripagata con una produzione legislativa di qualità comparabilmente superiore a quella di tutti gli altri paesi avanzati? Sarei proprio curioso di sapere chi sarebbe disposto a sostenerlo. Io mi limito a fornire qualche dato.
-il 90% dei progetti di legge non supera l'iter parlamentare: per quanto non esista una relazione semplice tra il numero di leggi e l'efficacia dell'attività legislativa (anzi, un numero eccessivo di leggi finisce per limitarne le possibilità applicative), il fatto che la mortalità dei progetti di legge sia così elevata mostra una certa propensione dei nostri parlamentari a promuovere iniziative legislative velleitarie.
- inoltre, si nota una crescente mancanza di congruenza tra le iniziative dei due rami del parlamento, che contribuisce ulteriormente alla frammentarietà e all'inefficacia dell'azione legislativa, e che è dovuta in buona parte alla stessa frammentazione interna degli orientamenti dei gruppi parlamentari.
Quanto alle conseguenze pratiche dell'attività legislativa, consideriamo due semplici dati:
- l'Italia è ventiseiesima nella EU27 per libertà economica (peggio di noi fa solo la Bulgaria, che peraltro è appena un posto sotto di noi) - il che vuol dire che negli ultimi anni quasi tutti i paesi ex socialisti della EU, partendo da situazioni molto, ma molto più arretrate delle nostre, sono riusciti a procedere nel processo di liberalizzazione molto più efficacemente di noi (per dare un'idea, la Romania ci sopravanza oggi di undici posizioni);
- l'Italia è novantaduesima (!!) nel ranking dell'indice di competitività globale del World Economic Forum per la qualità del contesto istituzionale (il che vuol dire, più o meno, un livello da paese del Terzo Mondo) - e in particolare è centodiciottesima (!!!) per l'efficienza del suo mercato del lavoro e centounesima (!!!) per capacità di fornire sostegno finanziario allo sviluppo di progetti imprenditoriali (un paese, nota bene, che ha gruppi bancari di dimensione europea). Altri fattori che pesano negativamente sulla qualità del nostro ambiente istituzionale secondo la valutazione del World Economic Forum sono gli alti livelli di corruzione, l'incidenza del crimine organizzato, la mancanza di indipendenza del sistema giudiziario.
Ci sarebbe allora qualche margine per intraprendere una iniziativa legislativa più efficace, o no? Il punto è che, a fronte di questa performance per così dire poco soddisfacente del nostro sistema legislativo, lo schema di incentivi legato alla remunerazione monetaria non fa che rafforzare le condizioni che producono questa inefficacia - per cui il puro costo della macchina parlamentare, per quanto rilevante e offensivo alla luce del reddito medio degli italiani, è quasi una minuzia rispetto all'incapacità di incidere legislativamente sui mali strutturali del nostro paese, che tengono lontani gli investitori stranieri e pregiudicano, come vediamo dai dati macroeconomici di questi ultimi anni, le nostre capacità di crescita - una specie di 'miracolo economico al contrario'.
Ma perché un livello di remunerazione così elevato dei parlamentari dovrebbe produrre effetti perversi? Semplice: proprio perché così elevata, la remunerazione parlamentare è di fatto molto più attraente del reddito che la stragrande maggioranza dei parlamentari potrebbe ottenere con qualsiasi attività alternativa, e peraltro è al riparo da ogni incertezza congiunturale visto che dal dopoguerra ad oggi è cresciuta ad un tasso medio del 10% annuo (e oltre tutto è cumulabile con molte altre forme di remunerazione, comprese alcune legate ad altri incarichi di natura politica): è, di fatto, una posizione di rendita. Per cui, chi ne beneficia sarà disposto a tutto pur di mantenerla, e diventerà quindi facilmente ricattabile da chi controlla la formazione delle liste elettorali. Per cui, i parlamentari che, in teoria, siedono nei loro scranni nel nostro interesse, in realtà fronteggiano una struttura di incentivi che li incoraggia a badare soprattutto al proprio interesse e a tenere in poco o nessun conto quello di coloro che dovrebbero rappresentare. Tanto per migliorare le cose, con la presente legge elettorale, come è noto, gli elettori non hanno alcuna voce in capitolo circa la riconferma dei parlamentari - e quindi, a maggior ragione, la cura del bene pubblico è di fatto fortemente disincentivata.
Di fatto, dunque, noi italiani strapaghiamo i parlamentari con le nostre tasse perché si facciano i fatti propri e non tengano in alcun conto le nostre istanze. Non a caso, quando si paventa lo scioglimento anticipato delle camere, la minaccia di 'mandare tutti a casa' (e successivamente di non ricandidare i parlamentari poco accomodanti) viene pronunciata da chi ha interesse a farlo in modo pressoché esplicito e riportata con enfasi dagli organi di stampa come un fatto normale, anzi naturale: chi vorrebbe rinunciare a sedere sotto l'albero della cuccagna? Solo che questa naturalezza sarebbe quantomeno meglio controllabile riconducendo l'anomalia italiana entro i parametri internazionali. Senza contare quel che si potrebbe fare utilizzando in modo sensato piuttosto che sconsiderato gli incentivi monetari stessi. Ad esempio, ancorando in modo sostanziale (e non marginale) la remunerazione parlamentare alla performance macroeconomica del sistema paese (ai tassi di crescita e al livello del PIL pro capite, eccetera). Questo non basterebbe forse ad assicurare un'azione legislativa efficace, ma quantomeno creerebbe qualche incentivo a prendere iniziative per migliorare l'efficienza del sistema paese, piuttosto che a mettersi a disposizione di interessi costituiti che spesso e volentieri sono la causa principale dell'inefficienza stessa.
Ma naturalmente tutto questo ha poco a che fare con l'agenda politica di questi mesi, nei quali, peraltro, l'attività parlamentare è pressoché paralizzata, i parlamentari sono oggetto di una compravendita esplicita per tenere in piedi la maggioranza, e c'è quindi chi passa notti insonni a valutare da che parte stare per capitalizzare quanto meglio possibile la propria scelta in termini di benefici personali presenti e futuri, perché naturalmente l'appetito vien mangiando. Tutto nel nostro interesse, sia chiaro.
venerdì 10 settembre 2010
I manga nel museo
Qualche giorno fa mi è stato chiesto un parere sull'opportunità di continuare a tenere aperto o meno il MAO, il Museo di Arte Orientale di Torino. Al momento in città si è sviluppata una polemica tra coloro che difendono il museo e coloro che lo ritengono troppo costoso e troppo poco frequentato per potersi permettere di lasciarlo aperto in un momento così difficile per i finanziamenti alla cultura.
A mio parere, la questione viene posta in modo errato. Il problema non è se il MAO costi troppo o troppo poco in astratto, ma piuttosto se esso possa o meno giocare un ruolo importante all'interno del panorama di offerta culturale della città, e più in generale all'interno della logica complessiva del suo sviluppo a base culturale.
Se si ragiona in questi termini, è possibile comprendere che la questione è molto più complessa (e interessante) di quello che sembrerebbe rimanendo sulla superficie di una polemica sterile.
Un museo di arte orientale, per di più bello, è in questo momento una notevole opportunità di diplomazia culturale verso una delle aree più attive economicamente, socialmente e culturalmente alla scala globale: un aspetto che dovrebbe interessare una città come Torino, che lavora con interesse all'apertura di nuovi mercati per le sue aziende ad alta tecnologia.
Un museo di arte orientale rappresenta poi una opportunità importante di coinvolgimento del pubblico giovanile, oggi attento e interessato come mai in passato alle forme della produzione culturale di massa dell'estremo oriente: i manga, gli anime, ma anche i tv drama, oggi facilmente accessibili (e sottotitolati da attivissime comunità di volontari per aumentarne la diffusione) attraverso le piattaforme di contenuti online. Fumetti, cartoni animati, sceneggiati televisivi: forme di espressione culturale che, a differenza di quanto accade (fortunatamente, sempre più di rado) qui in occidente, nei contesti di origine di queste produzioni non vengono generalmente considerate come manifestazioni di una cultura 'bassa' opposta ad una cultura 'alta' - non a caso, i richiami ai temi e ai contenuti delle espressioni culturali della tradizione, contaminati in modo libero e coraggioso con la sensibilità contemporanea, sono frequenti ed espliciti in tutti questi ambiti. Il MAO, peraltro, è già molto aperto al dialogo con tutte le arti, anche nelle loro espressioni più contemporanee, come nel caso del cinema e della musica: si tratta soltanto di fare un passo oltre su una strada di fatto già tracciata.
Una realtà come Torino, l'unica forse delle nostre grandi città ad aver fatto una scommessa seria sulla costruzione di una identità urbana legata al contemporaneo, non potrebbe che beneficiare di un polo di attivazione culturale che si apre coraggiosamente anche alle nuove ibridazioni linguistiche, che sono la vera cifra di questo momento storico, e che trovano nei paesi dell'estremo oriente uno dei laboratori più fertili e sorprendenti. I manga (gli anime, i tv drama storici e non) nel museo, quindi: perché no? I manga come porta per la costruzione di uno sguardo diverso, più profondo, più interessato alla grande tradizione dell'arte orientale: perché no? I manga, un possibile genere classico del futuro: perché no?
A mio parere, la questione viene posta in modo errato. Il problema non è se il MAO costi troppo o troppo poco in astratto, ma piuttosto se esso possa o meno giocare un ruolo importante all'interno del panorama di offerta culturale della città, e più in generale all'interno della logica complessiva del suo sviluppo a base culturale.
Se si ragiona in questi termini, è possibile comprendere che la questione è molto più complessa (e interessante) di quello che sembrerebbe rimanendo sulla superficie di una polemica sterile.
Un museo di arte orientale, per di più bello, è in questo momento una notevole opportunità di diplomazia culturale verso una delle aree più attive economicamente, socialmente e culturalmente alla scala globale: un aspetto che dovrebbe interessare una città come Torino, che lavora con interesse all'apertura di nuovi mercati per le sue aziende ad alta tecnologia.
Un museo di arte orientale rappresenta poi una opportunità importante di coinvolgimento del pubblico giovanile, oggi attento e interessato come mai in passato alle forme della produzione culturale di massa dell'estremo oriente: i manga, gli anime, ma anche i tv drama, oggi facilmente accessibili (e sottotitolati da attivissime comunità di volontari per aumentarne la diffusione) attraverso le piattaforme di contenuti online. Fumetti, cartoni animati, sceneggiati televisivi: forme di espressione culturale che, a differenza di quanto accade (fortunatamente, sempre più di rado) qui in occidente, nei contesti di origine di queste produzioni non vengono generalmente considerate come manifestazioni di una cultura 'bassa' opposta ad una cultura 'alta' - non a caso, i richiami ai temi e ai contenuti delle espressioni culturali della tradizione, contaminati in modo libero e coraggioso con la sensibilità contemporanea, sono frequenti ed espliciti in tutti questi ambiti. Il MAO, peraltro, è già molto aperto al dialogo con tutte le arti, anche nelle loro espressioni più contemporanee, come nel caso del cinema e della musica: si tratta soltanto di fare un passo oltre su una strada di fatto già tracciata.
Una realtà come Torino, l'unica forse delle nostre grandi città ad aver fatto una scommessa seria sulla costruzione di una identità urbana legata al contemporaneo, non potrebbe che beneficiare di un polo di attivazione culturale che si apre coraggiosamente anche alle nuove ibridazioni linguistiche, che sono la vera cifra di questo momento storico, e che trovano nei paesi dell'estremo oriente uno dei laboratori più fertili e sorprendenti. I manga (gli anime, i tv drama storici e non) nel museo, quindi: perché no? I manga come porta per la costruzione di uno sguardo diverso, più profondo, più interessato alla grande tradizione dell'arte orientale: perché no? I manga, un possibile genere classico del futuro: perché no?
giovedì 9 settembre 2010
Un paese del terzo mondo
Il grande economista Amartya Sen, premio Nobel per l'economia 1998, è uno dei più profondi conoscitori dei meccanismi che producono la povertà in tutte le sue forme. In particolare, Sen è l'iniziatore del cosiddetto capability approach, secondo cui le cause fondamentali della povertà non vanno cercate tanto nella mancanza di risorse in sé, quanto piuttosto nella mancanza di quelle capacità che permettono alle persone di fare le proprie scelte su questioni vitali nella piena consapevolezza delle conseguenze che tali scelte producono, soprattutto in termini di ben-essere personale e collettivo. Ad esempio, il basso livello di attenzione alle norme igieniche nei contesti più poveri (con tutte le prevedibili conseguenze in termini di diffusione delle malattie e di mortalità) si deve al fatto che una delle capacità fondamentali di cui i più poveri sono privi è proprio la comprensione del ruolo fondamentale che l'igiene ha nel determinare lo stato di salute, la durata e la qualità della vita propria e dei propri figli. Per cui, anche nel caso di un aumento del reddito, una famiglia povera potrebbe non migliorare il proprio livello di salute: ad esempio, se le continue malattie dei propri bambini dovute alla scarsa igiene vengono attribuite ad un malocchio e quindi il denaro aggiuntivo disponibile viene speso per commissionare allo sciamano rituali sempre più costosi, probabilmente le cose non miglioreranno.
Sarebbe facile (e consolatorio) pensare che i problemi di deficit di capacità riguardino soltanto i paesi a basso livello di sviluppo socio-economico. Purtroppo non è così: anche in contesti socio-economicamente avanzati si possono produrre deficit di capacità dalle conseguenze tragiche. Un esempio evidente in questo senso è il processo di progressiva e sistematica svalutazione sociale della conoscenza che si sta verificando nell'Italia di questi anni. In controtendenza non soltanto rispetto a tutti gli altri paesi più avanzati, ma anche alla maggior parte dei paesi socio-economicamente emergenti, in Italia si sta diffondendo, in modo sempre più evidente, l'idea che la conoscenza non abbia un reale valore sociale e che se ne possa tutto sommato fare a meno: un tipico atteggiamento rivelatore di un deficit di capacità particolarmente grave per un paese che, in quanto socio-economicamente avanzato, ha come unica prospettiva di futuro quella di diventare più competitivo nei processi di creazione di valore economico ad alta intensità di conoscenza.
Qualcuno potrebbe dire che questa diagnosi è esagerata, e anzi addirittura pericolosamente catastrofista. In Italia ci sono tante eccellenze che tutti ci invidiano ecc. ecc. Sarà, ma in un paese che non presenta un deficit di capacità quanto alla valorizzazione sociale della conoscenza, i dati diffusi oggi da QS, la società di consulenza specializzata che elabora ogni anno per il Times Higher Education Supplement la classifica dei migliori atenei del mondo, avrebbero dovuto suscitare una reazione ben maggiore dei soliti articoletti di taglio basso dedicati all'argomento, nel migliore dei casi, dai nostri maggiori quotidiani. In particolare, non avrebbero mai potuto essere totalmente ignorati dall'agenda politica, che come sappiamo in questi giorni è interamente dedicata ad altro. Non diversamente da quanto accadrebbe in un paese del terzo mondo, se i dati mostrassero che in quel paese la mortalità infantile è tripla rispetto a quella di altri paesi con un simile livello di sviluppo socio-economico. I politici locali scrollerebbero le spalle, direbbero che da loro è sempre stato così, e si passerebbe a qualcosa di più interessante, tipo: di che colore deve vestirsi l'esercito, quante mogli può avere il capo dello stato, cose così.
Ma cosa dicono, in ultima analisi, questi dati? E soprattutto, dicono qualcosa di diverso dai dati dell'anno prima? In sostanza no, le cose stanno come prima, cioè malissimo per le università italiane (e vedremo tra poco in che senso). Ma il fatto che la situazione delle università italiane nel contesto mondiale sia costantemente tragica non è un buona ragione per ignorare il problema, soprattutto quando c'è una riforma dell'università in dirittura d'arrivo (e probabilmente bloccata dal possibile ritorno alle urne nell'immediato futuro).
Il ranking di QS valuta le prime 500 università del mondo secondo un insieme molto ricco e articolato di parametri, che comprendono la produttività scientifica ma anche la qualità delle condizioni lavorative e di studio, l'internazionalità del corpo docente e di quello studentesco, eccetera. Nel complesso, si tratta di una valutazione che fornisce una stima affidabile della qualità di una istituzione universitaria, e infatti la pubblicazione dei risultati è molto seguita e molto seriamente considerata a livello internazionale. Ad oggi, per il 2010 è disponibile soltanto la lista delle prime 200 università - quella completa delle prime 500 sarà disponibile la prossima settimana - ma i dati appena pubblicati sono già sufficienti per operare delle valutazioni interessanti e affidabili. Ad ogni università, QS assegna un punteggio che pesa i vari criteri su cui si basa la valutazione. Fatto pari a 100 il punteggio del migliore, che quest'anno è l'università di Cambridge, che ha così messo in discussione lo storico predominio di Harvard, tutte le altre università sono valutate con un punteggio relativo, per cui l'effettiva gerarchia dei valori può essere misurata non soltanto dall'ordine in classifica, ma dalla effettiva distanza del punteggio di ciascuna università da quello della migliore. Sommando poi i punteggi delle università in classifica per nazione, si può ottenere una prima valutazione del 'potenziale' di ciascun paese in termini della qualità relativa delle proprie università di eccellenza.
Come si colloca l'Italia nel quadro internazionale? Tra le prime 200 ci sono soltanto due università italiane (Bologna e Roma La Sapienza), tutte e due in posizioni piuttosto basse di classifica. Senza fare confronti con le nazioni al vertice (USA e Regno Unito), le precedono sette università svizzere, nove canadesi, dieci olandesi (!!), otto australiane, nove giapponesi, quattro coreane, dodici tra Cina, Hong Kong e Singapore, quattro francesi, quattro svedesi, tre danesi, due irlandesi, due neozelandesi, due belghe, tre israeliane, due norvegesi, due spagnole, una austriaca, una russa, una taiwanese, una sudafricana (!!). Nel complesso, portando a 1000 la somma del potenziale complessivo della nazione più forte, gli USA naturalmente, ecco qual è il ranking dei vari paesi in termini di distanza relativa:
L'Italia è ventiquattresima. Ventiquattresima. Il che vuol dire che non soltanto non siamo nel G7 della qualità della produzione della conoscenza, ma non siamo nemmeno nel G20, in cui troviamo paesi come l'Irlanda, la Nuova Zelanda, la Danimarca, la Corea, e in cui c'è un paese come l'Olanda che siede al quarto posto assoluto. Fatto 1000 il potenziale degli USA, il nostro è 26,8. Il due e mezzo per cento. Se poi confrontiamo il nostro potenziale con quello degli altri paesi G7, è più che evidente che apparteniamo ad una categoria diversa, che non ha nulla a che fare con quella degli altri. Il paese più indietro nel gruppo oltre noi, la Francia, ha un potenziale più che triplo rispetto al nostro:
Alla luce di questi dati, se l'Italia non avesse un problema di capabilities, ci troveremmo di fronte ad una emergenza nazionale, ad una possibile mobilitazione generale. La riforma che sarebbe in via di approvazione fa ben poco per cambiare questa situazione. Nel migliore dei casi, ad esempio, introduce dei modesti incentivi monetari per chi fa buona ricerca, o dà qualche fondo in più; spiccioli, nel clima di tagli generalizzati che colpisce la formazione e la ricerca in Italia oggi. Ma tutti i nodi veri, quelli che scavano un fossato sempre più ampio tra noi e il mondo universitario globale che funziona secondo standard internazionali condivisi, restano intatti. Il processo di reclutamento dei docenti rimane ancora cervellotico, lungo e imprevedibile negli esiti (dopo mesi se non anni di concorso, se l'ateneo ha bisogno di uno specialista del campo X, può ritrovarsi uno specialista del campo Y di cui non sa bene che farsi) e improponibile per un ricercatore straniero di livello, che avrà modo di sistemarsi meglio e più rapidamente altrove. I docenti che non fanno ricerca da anni (e magari non l'hanno mai fatta) sono inamovibili e spesso impegnano una quantità di risorse tale da rendere impossibile assumere ricercatori giovani, per non parlare dei fondi che sottraggono a chi la ricerca potrebbe e vorrebbe farla, per cui l'unica speranza è aspettare che vadano in pensione (e naturalmente molti di loro fanno di tutto per andarci il più tardi possibile). La qualità della didattica e i giudizi degli studenti non hanno influenza alcuna sulla remunerazione dei docenti né sul loro status. Non è un caso allora che alcune delle nostre università che nelle classifiche parziali per aree ottengono buoni risultati, come la Bocconi nelle scienze sociali o il Politecnico di Milano nell'ingegneria, stiano di fatto approntando soluzioni che almeno in parte aggirano le insostenibili rigidezze del sistema italiano. Ma questo stato di cose, a quanto pare, non si può cambiare in modo sostanziale, perché essenzialmente per fare ciò l'università dovrebbe autoriformarsi, visto che in Italia la difesa degli interessi pregressi, giusti o sbagliati che siano, è sempre e comunque garantita (a danno di chi ha avuto la sfortuna di nascere troppo tardi rispetto agli anni d'oro in cui c'erano praterie da occupare e presidiare). E vi pare che possa autoriformarsi una università in cui, spesso e volentieri, chi ha i numeri per far pendere la bilancia da un lato o dall'altro sono proprio coloro che avrebbero molto o moltissimo da perdere da una vera trasformazione dell'università italiana? Anche altri paesi, come ad esempio la Germania, hanno avuto per anni un sistema universitario isolazionista rispetto al resto del mondo e molto rigido e controllato da interessi corporativi. Ma la Germania ha avuto il coraggio di cambiare con decisione, e ha oggi dodici università tra le prime duecento.
In un contesto del genere, è già un miracolo, direbbe qualcuno, che ci possa essere qualche università italiana tra le prime duecento, o qualche università nelle prime cento nei singoli settori, quindi rallegriamoci. Noi italiani, direbbe sempre quel qualcuno, siamo così: otteniamo tanto con poco. Quante volte ho sentito dire, sento ancora dire queste stupidaggini offensive, per chi le dice e per chi le ascolta. Ma tanto comode per chi ha interesse a mantenere le cose come sono, e per i decisori pubblici che non cercano altro che una buona battuta con cui liquidare queste seccature quando proprio devono dire qualche frase di circostanza. Quei decisori che magari neanche l'hanno fatta, l'università, e a cui comunque queste cose non interessano, perché interessa altro, perché queste cose non le capiscono, non li appassionano, non li divertono. Non possiamo nemmeno più dire che, andando avanti così, diventeremo un paese del terzo mondo. Dal punto di vista universitario, lo siamo già, un paese del terzo mondo.
Sarebbe facile (e consolatorio) pensare che i problemi di deficit di capacità riguardino soltanto i paesi a basso livello di sviluppo socio-economico. Purtroppo non è così: anche in contesti socio-economicamente avanzati si possono produrre deficit di capacità dalle conseguenze tragiche. Un esempio evidente in questo senso è il processo di progressiva e sistematica svalutazione sociale della conoscenza che si sta verificando nell'Italia di questi anni. In controtendenza non soltanto rispetto a tutti gli altri paesi più avanzati, ma anche alla maggior parte dei paesi socio-economicamente emergenti, in Italia si sta diffondendo, in modo sempre più evidente, l'idea che la conoscenza non abbia un reale valore sociale e che se ne possa tutto sommato fare a meno: un tipico atteggiamento rivelatore di un deficit di capacità particolarmente grave per un paese che, in quanto socio-economicamente avanzato, ha come unica prospettiva di futuro quella di diventare più competitivo nei processi di creazione di valore economico ad alta intensità di conoscenza.
Qualcuno potrebbe dire che questa diagnosi è esagerata, e anzi addirittura pericolosamente catastrofista. In Italia ci sono tante eccellenze che tutti ci invidiano ecc. ecc. Sarà, ma in un paese che non presenta un deficit di capacità quanto alla valorizzazione sociale della conoscenza, i dati diffusi oggi da QS, la società di consulenza specializzata che elabora ogni anno per il Times Higher Education Supplement la classifica dei migliori atenei del mondo, avrebbero dovuto suscitare una reazione ben maggiore dei soliti articoletti di taglio basso dedicati all'argomento, nel migliore dei casi, dai nostri maggiori quotidiani. In particolare, non avrebbero mai potuto essere totalmente ignorati dall'agenda politica, che come sappiamo in questi giorni è interamente dedicata ad altro. Non diversamente da quanto accadrebbe in un paese del terzo mondo, se i dati mostrassero che in quel paese la mortalità infantile è tripla rispetto a quella di altri paesi con un simile livello di sviluppo socio-economico. I politici locali scrollerebbero le spalle, direbbero che da loro è sempre stato così, e si passerebbe a qualcosa di più interessante, tipo: di che colore deve vestirsi l'esercito, quante mogli può avere il capo dello stato, cose così.
Ma cosa dicono, in ultima analisi, questi dati? E soprattutto, dicono qualcosa di diverso dai dati dell'anno prima? In sostanza no, le cose stanno come prima, cioè malissimo per le università italiane (e vedremo tra poco in che senso). Ma il fatto che la situazione delle università italiane nel contesto mondiale sia costantemente tragica non è un buona ragione per ignorare il problema, soprattutto quando c'è una riforma dell'università in dirittura d'arrivo (e probabilmente bloccata dal possibile ritorno alle urne nell'immediato futuro).
Il ranking di QS valuta le prime 500 università del mondo secondo un insieme molto ricco e articolato di parametri, che comprendono la produttività scientifica ma anche la qualità delle condizioni lavorative e di studio, l'internazionalità del corpo docente e di quello studentesco, eccetera. Nel complesso, si tratta di una valutazione che fornisce una stima affidabile della qualità di una istituzione universitaria, e infatti la pubblicazione dei risultati è molto seguita e molto seriamente considerata a livello internazionale. Ad oggi, per il 2010 è disponibile soltanto la lista delle prime 200 università - quella completa delle prime 500 sarà disponibile la prossima settimana - ma i dati appena pubblicati sono già sufficienti per operare delle valutazioni interessanti e affidabili. Ad ogni università, QS assegna un punteggio che pesa i vari criteri su cui si basa la valutazione. Fatto pari a 100 il punteggio del migliore, che quest'anno è l'università di Cambridge, che ha così messo in discussione lo storico predominio di Harvard, tutte le altre università sono valutate con un punteggio relativo, per cui l'effettiva gerarchia dei valori può essere misurata non soltanto dall'ordine in classifica, ma dalla effettiva distanza del punteggio di ciascuna università da quello della migliore. Sommando poi i punteggi delle università in classifica per nazione, si può ottenere una prima valutazione del 'potenziale' di ciascun paese in termini della qualità relativa delle proprie università di eccellenza.
Come si colloca l'Italia nel quadro internazionale? Tra le prime 200 ci sono soltanto due università italiane (Bologna e Roma La Sapienza), tutte e due in posizioni piuttosto basse di classifica. Senza fare confronti con le nazioni al vertice (USA e Regno Unito), le precedono sette università svizzere, nove canadesi, dieci olandesi (!!), otto australiane, nove giapponesi, quattro coreane, dodici tra Cina, Hong Kong e Singapore, quattro francesi, quattro svedesi, tre danesi, due irlandesi, due neozelandesi, due belghe, tre israeliane, due norvegesi, due spagnole, una austriaca, una russa, una taiwanese, una sudafricana (!!). Nel complesso, portando a 1000 la somma del potenziale complessivo della nazione più forte, gli USA naturalmente, ecco qual è il ranking dei vari paesi in termini di distanza relativa:
L'Italia è ventiquattresima. Ventiquattresima. Il che vuol dire che non soltanto non siamo nel G7 della qualità della produzione della conoscenza, ma non siamo nemmeno nel G20, in cui troviamo paesi come l'Irlanda, la Nuova Zelanda, la Danimarca, la Corea, e in cui c'è un paese come l'Olanda che siede al quarto posto assoluto. Fatto 1000 il potenziale degli USA, il nostro è 26,8. Il due e mezzo per cento. Se poi confrontiamo il nostro potenziale con quello degli altri paesi G7, è più che evidente che apparteniamo ad una categoria diversa, che non ha nulla a che fare con quella degli altri. Il paese più indietro nel gruppo oltre noi, la Francia, ha un potenziale più che triplo rispetto al nostro:
Alla luce di questi dati, se l'Italia non avesse un problema di capabilities, ci troveremmo di fronte ad una emergenza nazionale, ad una possibile mobilitazione generale. La riforma che sarebbe in via di approvazione fa ben poco per cambiare questa situazione. Nel migliore dei casi, ad esempio, introduce dei modesti incentivi monetari per chi fa buona ricerca, o dà qualche fondo in più; spiccioli, nel clima di tagli generalizzati che colpisce la formazione e la ricerca in Italia oggi. Ma tutti i nodi veri, quelli che scavano un fossato sempre più ampio tra noi e il mondo universitario globale che funziona secondo standard internazionali condivisi, restano intatti. Il processo di reclutamento dei docenti rimane ancora cervellotico, lungo e imprevedibile negli esiti (dopo mesi se non anni di concorso, se l'ateneo ha bisogno di uno specialista del campo X, può ritrovarsi uno specialista del campo Y di cui non sa bene che farsi) e improponibile per un ricercatore straniero di livello, che avrà modo di sistemarsi meglio e più rapidamente altrove. I docenti che non fanno ricerca da anni (e magari non l'hanno mai fatta) sono inamovibili e spesso impegnano una quantità di risorse tale da rendere impossibile assumere ricercatori giovani, per non parlare dei fondi che sottraggono a chi la ricerca potrebbe e vorrebbe farla, per cui l'unica speranza è aspettare che vadano in pensione (e naturalmente molti di loro fanno di tutto per andarci il più tardi possibile). La qualità della didattica e i giudizi degli studenti non hanno influenza alcuna sulla remunerazione dei docenti né sul loro status. Non è un caso allora che alcune delle nostre università che nelle classifiche parziali per aree ottengono buoni risultati, come la Bocconi nelle scienze sociali o il Politecnico di Milano nell'ingegneria, stiano di fatto approntando soluzioni che almeno in parte aggirano le insostenibili rigidezze del sistema italiano. Ma questo stato di cose, a quanto pare, non si può cambiare in modo sostanziale, perché essenzialmente per fare ciò l'università dovrebbe autoriformarsi, visto che in Italia la difesa degli interessi pregressi, giusti o sbagliati che siano, è sempre e comunque garantita (a danno di chi ha avuto la sfortuna di nascere troppo tardi rispetto agli anni d'oro in cui c'erano praterie da occupare e presidiare). E vi pare che possa autoriformarsi una università in cui, spesso e volentieri, chi ha i numeri per far pendere la bilancia da un lato o dall'altro sono proprio coloro che avrebbero molto o moltissimo da perdere da una vera trasformazione dell'università italiana? Anche altri paesi, come ad esempio la Germania, hanno avuto per anni un sistema universitario isolazionista rispetto al resto del mondo e molto rigido e controllato da interessi corporativi. Ma la Germania ha avuto il coraggio di cambiare con decisione, e ha oggi dodici università tra le prime duecento.
In un contesto del genere, è già un miracolo, direbbe qualcuno, che ci possa essere qualche università italiana tra le prime duecento, o qualche università nelle prime cento nei singoli settori, quindi rallegriamoci. Noi italiani, direbbe sempre quel qualcuno, siamo così: otteniamo tanto con poco. Quante volte ho sentito dire, sento ancora dire queste stupidaggini offensive, per chi le dice e per chi le ascolta. Ma tanto comode per chi ha interesse a mantenere le cose come sono, e per i decisori pubblici che non cercano altro che una buona battuta con cui liquidare queste seccature quando proprio devono dire qualche frase di circostanza. Quei decisori che magari neanche l'hanno fatta, l'università, e a cui comunque queste cose non interessano, perché interessa altro, perché queste cose non le capiscono, non li appassionano, non li divertono. Non possiamo nemmeno più dire che, andando avanti così, diventeremo un paese del terzo mondo. Dal punto di vista universitario, lo siamo già, un paese del terzo mondo.
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